Ultima porta rossa a sinistra: terapia familiare al Gaslini di Balocco, Bruzzone e Falzone

Premessa

L’inserimento della terapia familiare al Gaslini è un evento, anzi una conquista recente, che si presta ad offrire alcuni spunti di riflessione a partire dal tema proposto per questo Convegno residenziale: “Identità e Differenze: dalla clinica alla formazione la Scuola di Milano si confronta “. In particolare emergono due temi significativi:

Sviluppi prodotti dall’incontro tra l’approccio sistemico della Scuola di Milano con quello ad impronta medica (diagnosi e cura di una patologia valutata attraverso l’uso dei test e di colloqui psicodiagnostici) diffuso all’interno della cultura ospedaliera .

Sviluppi prodotti dall’utilizzo-riadattamento della tecnica appresa a scuola in un contesto sanitario ospedaliero.

Contesto

L’Istituto G. Gaslini di Genova è un ospedale pediatrico che accoglie bambini da 0 a 14 anni. Tra i vari reparti di cui si compone, vi è quello di Neuropsichiatria Infantile, dove noi tirocinanti del secondo e del quarto anno del CMTF ci siamo ritagliati uno spazio, per noi importante conquista, “oltre la soglia dell’ultima porta rossa a sinistra”.

Il vasto popolo dei tirocinanti

In realtà il reparto vanta collaborazioni con più scuole di specializzazione ed Università, permettendo a diverse figure professionali (medici, psicologi, educatori, insegnanti) di svolgere il loro tirocinio all’interno della struttura. E’ quindi una storica attitudine del reparto quella di accogliere studenti in formazione e di inserirli in un contesto fortemente caratterizzato e organizzato secondo un’impronta medica. Il personale sanitario di reparto, inoltre, pare aver scelto di interfacciarsi con l’utenza secondo un modello relazionale che potremmo definire di tipo psico-educativo.

All’interno di questa “cultura”, la consuetudine è che gli psicologi post lauream siano portati a studiare e ad usare operativamente test e a relazionarsi durante colloqui anamnestici (affiancati dai rispettivi tutor) con bambini in fase di valutazione diagnostica. Per qualche anno anche ai tirocinanti psicoterapeuti veniva chiesto di conformarsi a questa prassi, approfondendo la parte testistica.

In seguito si è pensato di impiegare questi studenti, affiancandoli a specializzandi neuropsichiatri impegnati, prima nella ricostruzione dell’anamnesi e poi, durante i colloqui successivi, affinché al loro interno fosse dato il giusto risalto anche agli aspetti psicologici, oltre che a quelli medico-sanitari.

In questo quadro va inserito il suggerimento di una tirocinante del secondo anno della nostra scuola (anche coautrice del presente articolo), che ha portato i responsabili di reparto ad una riflessione sulla possibilità di creare uno spazio per consentire ai terapeuti sistemici di impiegare, esercitare e potenziare le proprie competenze in ambito familiare, mettendole a disposizione del reparto: ciò anche a vantaggio e garanzia di un’offerta di servizio più specializzata ed articolata di fronte all’utenza. Sino ad allora, infatti, ogni qualvolta veniva riscontrata l’esigenza di far intraprendere un percorso di sostegno o di terapia di una famiglia utente, questa veniva regolarmente inviata all’esterno. In alcuni casi specifici, tendeva tuttavia a crearsi così una sorta di frattura fra il percorso intrapreso dentro e quello proseguito fuori dalla struttura, non sempre in un’ottica di continuità, comunicazione e confronto tra i vari esperti coinvolti nella gestione del caso.

Nasce dunque a seguito di questa riflessione uno spazio per le famiglie all’interno del reparto di neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Gaslini.

Anche altri elementi sono però stati determinanti per il riconoscimento di una utilità e di un senso di questo servizio in questo contesto.

Fondamentale è senza dubbio stata la presenza del Dr. Semboloni, uno dei direttori della nostra sede, che da diversi anni ormai insegna presso la scuola di specializzazione in Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Gaslini. Attraverso le sue lezioni e i seminari, i concetti che stanno alla base della terapia della famiglia hanno cominciato a circolare e a divenire un po’ più familiari anche dentro questa struttura. E’ stato lui che, contestualmente, ha attivato la convenzione tra l’Ospedale e la nostra Scuola per il tirocinio: la diffusione della cultura sistemica in questo ambiente è così entrata in una nuova fase.

Lo spazio per le famiglie

Quando la nostra proposta è stata accettata, ha ricevuto un’accoglienza caratterizzata da un misto di curiosità e diffidenza. Di fatto, il percorso che ci ha condotte ad ottenere uno spazio fisico, nonché l’invio di alcune famiglie con minori in cura presso il reparto, ha avuto una gestazione di alcuni mesi, in seguito ai quali è stata ufficialmente formalizzata l’introduzione di uno spazio di terapia familiare tramite l’attribuzione di una stanza destinata a tale uso due pomeriggi a settimana.

Alla curiosa collocazione di tale stanza all’interno del reparto, si ispira il titolo di questo nostro articolo. Essa è forse simbolicamente più esplicativa di quanto non possano esserlo tanti discorsi a parole, circa la funzione che assume questo tipo di consulenza al momento all’interno di questo reparto. A nostro avviso, essa porta nella sua collocazione i segni della differenza, qui espressa in termini di distanza ed isolamento fisico, tra la scelta e l’uso di diversi modelli teorici e pratici di riferimento. Ma rappresenta anche l’indipendenza del nostro lavoro rispetto al resto del reparto e l’integrazione dello stesso nella vita dell’ospedale.

Il reparto di neuropsichiatria si sviluppa prevalentemente lungo un corridoio, entro il quale si succedono gli studi dei vari specialisti e gli spazi attrezzati (la palestra per la psicomotricità, la sala giochi, ecc….). Giunti in fondo allo stesso, sulla sinistra è ben visibile una pesante porta sparti-fiamme rossa, che da’ accesso al vano scale. Oltre questa porta, immediatamente prima delle scale, c’è soltanto un’ultima stanza, defilata rispetto alle altre e, probabilmente, utilizzata in passato come area per la distribuzione dei pasti, attualmente utilizzata da una psicologa del reparto, solo al mattino, per la testistica. Bianche piastrelle ricoprono le pareti della stanza dall’alto soffitto, fino ad altezza uomo, mentre in un angolo c’è ancora un piccolo montacarichi ormai fuori uso: questo è il nostro spazio di condivisione e d’incontro con le famiglie.

Criteri di selezione e modalità d’invio delle famiglie

La responsabile-filtro dell’invio di nuovi casi in consulenza è la Dr.ssa Savoini, psicologa tutor per il tirocinio. Questa figura professionale, insieme ai colleghi specialisti di reparto, ha definito alcuni criteri orientativi per la selezione dei casi da prendere in carico, che riportiamo qui di seguito in ordine di priorità:

Individuare famiglie che possano trarre un vantaggio da una terapia che coinvolga tutti i componenti del nucleo (individuazione di un bisogno specifico di questo tipo);

Selezionare tenendo conto della possibilità logistica di accedere al servizio secondo i modi e i tempi richiesti dal tipo di percorso da intraprendere (molte famiglie provengono da altre città, regioni o addirittura dall’estero: questi difficilmente potrebbe rispettare il setting terapeutico);

Tenere in considerazione le possibilità economiche della famiglia, lasciando un accesso privilegiato a coloro che non potrebbero permettersi di presentare analoga richiesta nel privato;

Le famiglie che mantengono una sorta di “rapporto di dipendenza” con la struttura hanno un “accesso facilitato” a questo spazio che, tra le altre cose, deve rappresentare per loro un’area di transizione tra il nucleo e la struttura: qui si andrà progressivamente ad elaborare un processo di separazione-individuazione dell’uno rispetto all’altra.

Questi criteri danno avvio a una riflessione in merito alle differenze tra la cultura ospedaliera e gli altri ambiti di lavoro terapeutico.

Le famiglie che sono finora giunte al nostro spazio hanno alle spalle storie diverse, ma tutte sono accomunate dalla presenza di una sintomatologia somatica funzionale e dall’essere già state dimesse o in via di dimissione dal reparto. Questo è dovuto anche alla specificità del reparto, di neuropsichiatria infantile, visto che all’interno dell’Istituto vi è il reparto di psicologia clinica.

Accade quindi spesso che, quando le famiglie arrivano al Gaslini preoccupate per il sintomo del figlio, richiedano fortemente una “cura” in quanto desiderosi di vederlo “guarito”. Rivolgersi all’ospedale significa chiedere la consulenza di un medico che possa prescrivere un farmaco “giusto” per quel malato, senza pensare ad eventuali implicazioni psicologiche, legate al disturbo e, tanto meno, coinvolgenti i componenti del nucleo familiare.

In altri contesti clinici, invece le famiglie, pur designando al loro interno un paziente, possono giungere al servizio con una consapevolezza diversa e cioè quella di avere un problema per cui ricercare una soluzione: non necessariamente quindi si lavora sul concetto di malattia con qualcuno che richieda un farmaco.

La scelta di un contesto pubblico piuttosto che di uno privato, motivata da ragioni economiche, presenta dei risvolti psicologici legati alla motivazione con cui una famiglia si approccia alla consulenza.

Un ultimo aspetto di differenza che vogliamo sottolineare sta nella peculiare funzione di area di transizione che svolge questo spazio fra la struttura ospedaliera e il mondo esterno. Le tante storie di bambini e di “famiglie ospedalizzate”, che entrano ed escono talvolta per anni dai diversi reparti, fa sì che si crei un legame molto stretto tra i pazienti e l’ospedale (vissuto come una seconda casa) e tra i pazienti e gli operatori sanitari (vissuti come una seconda famiglia). Questo tipo di utenza, che comunque si ritiene necessiti di una consulenza familiare, trae vantaggio dal lavoro di ridefinizione del sintomo, che li porta a considerare la problematica alla luce di un nuovi e differenti significati.

La collocazione logistica della stanza di terapia acquisisce un nuovo significato: si entra nel reparto, incontrando gli altri specialisti, per poi fermarsi nello “spazio per le famiglie”. Questo breve viaggio oltre la porta rossa comincia con una coppia di genitori che accompagnano un figlio “malato”, per concludersi con una famiglia che scende le scale dell’ospedale con una nuova percezione di sé.

Dalla teoria alla pratica: differenze e continuità nell’approccio sistemico tra la terapia familiare e la sua applicazione nel contesto ospedaliero

Identità rispetto al modello teorico

Nell’incontro con un sistema familiare, l’approccio milanese, cerca di focalizzare, non solo gli scambi interattivi, ma la “visione del mondo” portata dalla famiglia e dai singoli membri ovvero ciò che emerge da premesse di idee, fantasie, valori, emozioni, affetti che hanno un peso sostanziale nella costruzione della storia di ogni famiglia. E’ proprio su questa storia che il terapeuta interviene, con l’intento di rileggerla, insieme al sistema familiare con una punteggiatura alternativa. Le ipotesi formulate dai terapeuti servono quindi a organizzare i dati e i significati assegnati agli eventi da parte dei familiari; tuttavia esse non hanno carattere di spiegazione, ma di punteggiature costruite con la famiglia all’interno del processo terapeutico stesso. La tecnica con cui il terapeuta conduce il colloquio sistemico poggia sul principio della circolarità delle sequenze di eventi. Le domande circolari, cioè il chiedere ad una persona di esprimere il proprio punto di vista circa la relazione e le differenze tra gli altri membri familiari, rendono evidente la struttura delle relazioni presenti nel sistema, aldilà dei significati attribuiti ai comportamenti. L’intervista circolare favorisce il processo di ipotizzazione, perchè costringe ognuno, famiglia e terapeuti, ad impegnarsi in letture alternative, a mettere in dicussione premesse che si credono fondanti, ad immaginare nuovi possibili percorsi (Cecchin G.F., “Revisione dei processi di ipotizzazione, circolarità e neutralità. Un invito alla curiosità.”). Essa, infatti, è una tecnica che viene utilizzata per sviluppare le ipotesi e mantenere la neutralità. Tuttavia, si utilizzano anche domande dirette più indicate nei casi in cui sia necessario costruire un rapporto empatico e di fiducia con il paziente. La posizione dei terapeuti nei confronti del nucleo familiare risponde al principio della neutralità terapeutica. Il terapeuta deve essere empatico e può allearsi con parti del sistema, ciò che non deve dimenticare è che si muove in un contesto familiare, pertanto deve assicurare, globalmente, a tutti i presenti in seduta la stessa qualità della relazione. La neutralità è così vista come una posizione del clinico di curiosità che porta ad una continua ricerca di altre descrizioni, impedendo il bloccarsi su una spiegazione, una sola verità. Vi è, così, una ricerca costante di letture alternative degli eventi familiari, per costruire premesse più funzionali, sia per il paziente che per i suoi familiari. Il terapeuta suggerisce ipotesi alternative in grado di porre sotto revisione le ipotesi esplicative portanti della famiglia. Le ipotesi introdotte dal terapeuta possono anche essere scartate dal nucleo familiare, ciò che è più significativo è il fornire implicitamente un approccio alla soluzione dei problemi che insegni ai familiari a considerare una gamma più ampia di possibili significati per comprendere ed affrontare gli eventi della loro vita. Vi è, poi, il lavoro di revisione dell’assunto familiare che tutto debba partire ed essere ricondotto al paziente. Sfidare la centralità del sintomo costituisce punto di partenza e obiettivo di fondo per la terapia familiare. L’intervento mira ad un cambiamento sostanziale della configurazione familiare, tale per cui venga meno la funzione “adattiva” del sintomo. Se ciò non è possibile, l’intervento ha lo scopo, allora, di migliorare il sistema di comunicazione dei familiari in modo che alcuni patterns relazionali, che sicuramente non hanno determinato il sintomo, ma possono concorrere a sostenerlo o ad esasperarlo, vengano abbandonati. Si tratta certamente di un cambiamento che non porta ad una ristrutturazione profonda dei significati, delle regole, delle relazioni familiari. D’altro canto questo cambiamento, più circoscritto e superficiale, può concorrere all’instaurarsi di un clima emotivo familiare più equilibrato riducendo anche sensibilmente lo stato di disagio del paziente.

Differenze nella applicazione pratica

La nostra esperienza all’interno del contesto ospedaliero ci ha portato a modificare alcuni aspetti della pratica clinica, adattandoli alle caratteristiche del contesto nel quale lavoriamo. Innanzitutto il nostro lavoro si svolge senza l’ausilio dello specchio unidirezionale e della telecamera per cui è impossibile videoregistrare le sedute o consultarci con colleghi che osservino dietro lo specchio. Abbiamo dunque cercato di ovviare a queste lacune essendo sempre presenti in due durante le sedute: un conduttore ed un co-terapeuta osservatore che, sebbene talvolta intervenga attivamente durante i colloqui, concentra la propria attenzione soprattutto sulla registrazione manuale della seduta (producendo materiale che poi ci serve per discutere del caso a fine seduta o prima della seduta successiva). Abbiamo inoltre previsto di consultarci, in momenti particolari della seduta, uscendo dalla stanza e potendo così discutere e scambiare impressioni e proposte su come procedere. Naturalmente spieghiamo preventivamente tutto ciò alle famiglie al momento del primo contatto che abbiamo con loro.

Conclusioni

Ad un anno dalla nascita dello spazio di consulenza per le famiglie, ci sembra che la cultura sistemica si sia integrata nelle dinamiche del reparto. Un esempio di questa integrazione è rappresentata dal lavoro svolto nelle “Riunioni del lunedì”. Queste nascono dall’esigenza dei diversi professionisti che lavorano su di uno stesso caso di confrontarsi per costruire insieme un progetto di intervento comune. In questi incontri si sono gettati i semi che hanno iniziato a dare i loro frutti al ritorno delle ferie estive.

Durante la nostra assenza c’è stata una ristrutturazione degli ambienti, in particolare hanno ridipinto tutte le porte del reparto, che da rosse sono diventate gialle. In concomitanza con questo ci è stato chiesto di aumentare il nostro lavoro, prendendo in carico anche le famiglie dei pazienti durante il ricovero.

Ci sembra importante sottolineare che questa esperienza può costituire un’opportunità, per i futuri tirocinanti di terapia familiare a Genova e speriamo anche in altri contesti ospedalieri in altre città.