La comunicazione non violenta: comunicazione empatica

La non violenza conduce all’etica più alta, che è l’obiettivo di tutta l’evoluzione. Fino a che non smetteremo di fare del male agli altri esseri viventi, saremo sempre dei selvaggi. Thomas Alva Edison

La comunicazione non violenta o empatica è un modello ideato da Marshall Rosenberg, che si basa su una comunicazione utile a rafforzare la nostra empatia ed umanità anche in condizioni difficili. L’idea è che le nostre parole possono diventare una comunicazione basata sulla consapevolezza di ciò che sentiamo, percepiamo e vogliamo, dando all’altro un’attenzione empatica e rispettosa sostituendo le reazioni e risposte meccaniche e abituali. Si basa sul principio che sentire empatia faccia parte della nostra natura mentre le strategie violente – siano esse fisiche o verbali – sono comportamenti appresi, che la cultura prevalente insegna e sostiene allontanandoci da noi stessi e dagli altri.

Rosemberg distingue dunque con il linguaggio dello sciacallo (si riferisce ai pupazzi-marionette utilizzati nei seminari e conferenze per spiegare i metodi di comunicazione efficaci) il modo di parlare quotidiano che giudica, interpreta, stabilisce delle diagnosi, classifica le persone, incolla etichette, spiega ciò che non rientra nella logica e come “dovrebbero” agire le persone per far bene. Noi però abbiamo la possibilità di parlare un linguaggio che non giudica, che cerca di comprendere, che esprime ciò che percepiamo, le reazioni, o l’espressione dei bisogni più profondi il linguaggio giraffa. Rosenberg scelse questo animale perché il suo lungo collo gli permette di avere un’ampia visione, e per il fatto che ha il cuore più grande tra i mammiferi terrestri. Se il linguaggio sciacallo è un linguaggio che esige, il linguaggio giraffa è un linguaggio che chiede.

La comunicazione non violenta intende trovare un modo così che ogni persona ottenga ciò che per lei è davvero importante, senza ricorrere alla colpa, l’umiliazione, la vergogna, il biasimo, la coercizione o la minaccia. È utile per risolvere i conflitti, trovarsi in sintonia con gli altri e vivere in maniera consapevole, e in armonia con le necessità profonde e genuine che ci appartengono. Quando usiamo il linguaggio giraffa per ascoltare i bisogni più profondi, nostri ed altrui, percepiamo le relazioni in un modo più costruttivo. Non è necessario che gli altri con cui conversiamo siano a conoscenza del metodo e neppure che vogliano relazionarsi con noi in modo empatico, se impariamo ad utilizzarlo correttamente è facile che gli altri si unirscano a noi in un processo di riconoscimento empatico.

Ci sono quattro componenti chiave nella comunicazione non violenta, sempre presenti sia che si parli o che si ascolti, ogni punto non deve necessariamente essere espresso verbalmente. La comunicazione infatti si fa anche con il volto, il tono di voce, la gestualità. E sono:

1. Osservare le azioni concrete in una data situazione senza dare giudizi o fare valutazioni.
2. Prendere consapevolezza dei sentimenti che proviamo riguardo a ciò che stiamo osservando.
3. Prendere consapevolezza dei bisogni collegati ai sentimenti che abbiamo identificato
4. Fare una richiesta specifica.

1. Osservazioni ovvero dire ciò che osservo, semplicemente. Quando parliamo, evitiamo di mischiare un giudizio o una valutazione con la descrizione dei fatti. Uno degli elementi della comunicazione non violenta consiste nel fare un’osservazione precisa descrivendo gli avvenimenti o il comportamento che osserviamo, che ci faccia piacere o ci faccia soffrire. Parliamo un linguaggio d’azione ed evitiamo ogni valutazione, ogni giudizio. Il linguaggio d’azione descrive ciò che la persona fa, senza aggiungere ciò che noi pensiamo che possa aver fatto. Si tratta di osservazioni puramente basate sui fatti, senza alcuna componente di giudizio o valutazione. Le persone sono in disaccordo sulle valutazioni perché applicano un altro metro di giudizio, mentre i fatti direttamente osservabili forniscono un terreno comune sul quale comunicare. Non si dirà: “tu mi fai arrabbiare facilmente”; “il moderatore ha parlato troppo alla riunione”. Si dirà piuttosto: “questa sera, hai alzato la voce tre volte”; “il moderatore non ha domandato la mia opinione durante la riunione”. Ad esempio, la frase “Sono le due del mattino e sento la musica che proviene dal tuo stereo” esprime un fatto osservato, mentre “È troppo tardi per fare tutto questo chiasso” espone una valutazione. “Ho appena guardato nel frigorifero e ho visto che non c’è niente da mangiare, e sto pensando che tu non sia andato a fare la spesa” esprime un fatto osservato (con una deduzione esplicitamente dichiarata), mentre “Hai sprecato tutta la giornata” comunica una valutazione.

2. Sentimenti cioè dire ciò che si prova in relazione a ciò che ho osservato. I sentimenti forniscono delle informazioni sul nostro grado di benessere, esprimerli migliora le relazioni, gli altri, infatti, non sanno ciò che proviamo se non lo esprimiamo. Rivelare i propri sentimenti, ciò che avviene in noi di cui l’altro non può avere coscienza, è necessario per far sviluppare la fiducia e la sicurezza. Chiamare per nome l’emozione, senza alcun giudizio morale, permette di entrare in sintonia attraverso uno spirito di rispetto e cooperazione reciproci. Rivelare la propria vulnerabilità e far conoscere i nostri veri sentimenti non è semplice, a volte, poi, è ancora difficile rendere a parole le sensazioni. Spesso infatti ci possiamo accontentare di espressioni generiche (“mi sento bene”, “mi sento male”) oppure usare sempre gli stessi pochi vocaboli per esprimere le emozioni e i sentimenti.

Quando impariamo a pensare in termini di ciò che non va negli altri, invece di esprimere ciò che avviene in noi la violenza succede più facilmente. Espressioni come “io mi sento manipolato” “utilizzato”, “umiliato”, “ignorato” , valutano ciò che fanno gli altri e non ciò che io sento. “Io sento che … che tu …..”, “io mi sento come …. come se …”, introducono spesso un giudizio, una diagnosi, e non esprimono un sentimento. Sono espressioni che appartengono al linguaggio sciacallo. D’altra parte, espressioni come: “Mi sento male, mi sento bene” sono, come detto sopra, troppo vaghe. Si potrebbe dire: “Ho paura” “Mi sento contrariato” o “Non mi sento a mio agio”. “Sono completamente demoralizzato” o “Sono delusa”, ecc. Ad esempio, “Manca un’ora all’inizio della conferenza, e ti vedo camminare avanti e indietro (osservazione). Sei nervoso?”. Oppure: “Vedo che il tuo cane corre in giro abbaiando e senza guinzaglio (osservazione). Ho paura”. 

3. Bisogni è il terzo elemento della comunicazione non violenta ed è la presa di coscienza e la verbalizzazione dei bisogni che nascono dai sentimenti. I nostri sentimenti sono il risultato del modo in cui si sceglie di ricevere quello che gli altri dicono e fanno, oltrechè dei propri bisogni e aspettative in quel momento. Quando i nostri bisogni sono soddisfatti, proviamo sensazioni felici e piacevoli al contrario quando non sono soddisfatti, abbiamo sensazioni sgradevoli. Sintonizzandosi sulla sensazione, si può trovare il bisogno sottostante, comunicarlo, senza darne un giudizio morale, rendendo chiaro cosa sta accadendo in o nell’altra persona in quel determinato momento. Ad esempio: “sono deluso (è un sentimento) perché mi piacerebbe avere fiducia in te!”. Se non siamo coscienti del legame tra i nostri bisogni e i sentimenti, limitiamo spesso la causa di questi ultimi alle azioni degli altri e porta a colpevolizzarli e talvolta ad accusarli. Rimproverare gli altri dei nostri sentimenti provoca il loro senso di colpa. Siamo invitati ad accettare la responsabilità dei nostri sentimenti, a non trasferirli sui terzi. Invece di dire: “Tu mi hai deluso perché quella sera non sei venuto”, è meglio esprimersi in questo modo: “Sono rimasta delusa che tu non sia venuto quella sera perché avrei voluto parlarti di cose che mi preoccupano” (l’importante sono i miei bisogni). Si usa la formula “Mi sento….. perché io…..” ad esempio: “Vedo che, mentre ti parlo, distogli lo sguardo, e stai parlando così sommessamente che non riesco a sentirti (osservazione). Mi sento a disagio (sensazione), perché in questo momento ho bisogno di un contatto”. Oppure: “Ho visto che il tuo nome non è stato citato nei ringraziamenti. Ti senti offeso perché non ricevi la riconoscenza di cui hai bisogno?”

4. Richieste: Domandare ciò che desidererei che l’altro facesse per arricchire la mia vita. Essere coscienti e consapevoli delle nostre percezioni, dei sentimenti, dei bisogni ed essere in grado di formularli esplicitando chiaramente ciò che vogliamo anziché ciò che non vogliamo, significa esprimere quello che desideriamo dall’altro con un linguaggio d’azione positivo, evitando di impiegare formule vaghe o astratte (“Mi piacerebbe che tu mi accettassi come sono”). La comunicazione non violenta suggerisce di formulare le domande in un linguaggio che descrive le azioni che ci piacerebbero veder attuate. Quando i miei desideri sono espressi chiaramente e concretamente, ho più possibilità di ottenere ciò che desidero piuttosto che quando le mie richieste sono immerse nelle spiegazioni. Meglio evitare delle frasi come: “Mi piacerebbe che la mia opinione fosse presa in considerazione”. Invece una frase del tipo: “Mi piacerebbe conoscerti meglio”, permette di esplicitare le proprie intenzioni, ma non si chiarisce ciò che si vuole che l’altro faccia a tale proposito. È più chiaro se si dice: “Mi piacerebbe conoscerti meglio, quindi sarei contento che tu dicessi se vuoi venire a bere un bicchiere con me sabato prossimo”. Domandare, offre all’altro l’occasione di esercitare la propria generosità. La motivazione è la benevolenza e non il risentimento, la paura, il timore, la vergogna, ecc. Non si tratta ne’ di esigere, ne’ di minacciare, ne’ di ordinare. Lo si dirà con un linguaggio d’azione positivo: si dice da chi si desidera ottenere qualcosa; che cosa vogliamo (piuttosto che ciò che “non” vogliamo); quali azioni osservabili desideriamo. Un esempio: “ Vorrei che tu mi dicessi ‘Buongiorno’ quando rientro”.

In sintesi

Quando impiego il linguaggio d’azione positivo, evito di dire alle persone come mi piacerebbe che sentano o che pensino, perciò al termine di tale cammino, l’altro, non sentendosi giudicato, non reagirà come una persona aggredita. È così più probabile che acconsenti alla richiesta. Chiedere chiaramente e specificamente quello che si desidera in questo momento, permette di ottenere di più rispetto al suggerire o esprimere solo quello che non vuoi. Per esempio: “Ho notato che, negli ultimi dieci minuti, non hai detto niente (osservazione). Ti stai annoiando? (sensazione)“. Se la risposta è sì, si può parlare della propria sensazione e proporre un intervento: “Be’, mi annoio anch’io. Ehi, cosa ne dici di andare al museo?”, o, magari: “Secondo me è davvero interessante parlare con queste persone. Perchè non andiamo a trovarle, quando ho finito qui?”. Per far sì che la richiesta sia veramente tale, e non una pretesa, si permette all’altra persona di dire no oppure di proporre un’alternativa. Ci si assume la responsabilità di soddisfare i propri bisogni e lasciare che gli altri si prendano la responsabilità dei propri. Se si fa qualcosa assieme, dev’essere perché entrambi acconsentono, come una maniera di soddisfare bisogni e i desideri di tutti, non come risultato della colpa o della pressione. A volte si p trovare un intervento che soddisfi i desideri di entrambi, mentre, a volte, ognuno andrà per la propria strada.

Non c’è bisogno di applicare tutti i quattro passaggi in ogni situazione. Però si può usare su se stessi gli stessi quattro passaggi, per fare chiarezza sui propri bisogni e decidere come agire con intelligenza. Per esempio, se in una situazione in cui si è alterati, un approccio può essere quello di rimproverare se stessi o altre persone: “Queste persone sono degli idioti! Non si accorgono che stanno rovinando il loro stesso progetto con la loro ristrettezza di vedute?”. Invece, un dialogo interiore nonviolento potrebbe assomigliare a questo: “Gli altri colleghi non erano convinti. Non credo che abbiano ascoltato la mia argomentazione. Mi sento alterato perché non vengo ascoltato nel modo in cui ho bisogno. Voglio il rispetto che accompagna l’ascolto e l’approvazione delle ragioni del mio progetto. Come posso ottenere quel rispetto? Forse non da questa squadra. Oppure potrei parlare con ognuno singolarmente, quando la conversazione non è così accesa, e vedere come vanno le cose in questo modo.

La più alta espressione dell’empatia è nell’accettare e non giudicare. (Carl Rogers)

Secondo Marshall Rosenberg il linguaggio e il modo in cui usiamo le parole hanno un ruolo cruciale nel riuscire a rimanere collegati empaticamente a noi stessi e agli altri. La comunicazione nonviolenta funziona come processo per la risoluzione dei conflitti, è un processo di confronto utile trovare maggiore autenticità nella comunicazione, una maggiore comprensione, connessioni più profonde, vicinanza con l’altro. Essa si concentra su tre aspetti della comunicazione:

  • l’auto-empatia riguarda il modo con cui trattiamo noi stessi. Ricordarsi di essere speciali; valutare noi stessi, senza giudicarci, quando siamo abbiamo sbagliato, comprendendo che in quel caso non stiamo attendendo ai nostri bisogni, e non stiamo agendo per soddisfare i propri desideri. Quando ascoltiamo noi stessi con empatia possiamo intendere il bisogno sottostante, a questo punto possiamo perdonare noi stessi, poiché nella scelta sbagliata vediamo il tentativo di “servire la vita”. Un’ultima cosa Rosemberg dice “non fare nulla che non sia un gioco” ovvero fare scelte motivate dai nostri desideri, nel bisogno di arricchire la vita non nella vergogna nel senso di colpa, nel dovere, nella paura.

  • l’empatia ovvero l’ascolto di un altro con profonda partecipazione, questo ci permette di essere vulnerabili, di ridurre la violenza potenziale, ci aiuta ad ascoltare i no senza sentirlo come un rifiuto, ravvivare una conversazione spenta sintonizzandoci sui nostri bisogni e sui bisogni dell’altro.

  • auto-espressione onesta: l’esprimersi autenticamente in modo da ispirare vicinanza ed empatia negli altri. Esprimere la propria rabbia distinguendo lo stimolo dalla causa. Il comportamento altrui infatti, può essere uno stimolo per i nostri sentimenti non la causa, che resta il nostro bisogno. Utilizzare la forza in senso protettivo per prevenire un infortunio o un’ingiustizia ad esempio.

La comunicazione nonviolenta si basa sull’idea che tutti gli esseri umani hanno la capacità di compassione e ricorrono alla violenza o a un comportamento che danneggia gli altri quando non riconoscono le strategie più efficaci per soddisfare i propri bisogni. Le abitudini di pensare e di parlare che portano all’uso della violenza (psicologica e fisica) sono apprese attraverso la cultura non sono innate nell’uomo. Non sempre quando si crea empatiasi riesce a capire qual è la sensazione o il bisogno di una persona. Ascoltare con il desiderio di comprendere, senza criticare, giudicare, analizzare, consigliare né discutere, molto spesso porterà l’altra persona ad aprirsi di più, così si ottiene una percezione migliore e differente di quanto sta accadendo. Il genuino interesse nelle sensazioni e nei bisogni che guidano le azioni di ogni altra persona conducono ad una maggiore comprensione dell’altro. Spesso, il condividere con sincerità le proprie sensazioni e i propri bisogni, aiuta l’altro ad aprirsi.

In questo breve articolo ho delineato in maniera sintetica i principi della comunicazione non violenta,  ma è solo una introduzione all’argomento, per approfondire suggerisco la lettura del libro di Marshall Rosenberg: Le parole sono finestre (oppure muri). Introduzione alla comunicazione nonviolenta, edizioni Esserci.