La Psicopatologia nella Pandemia

Il momento storico in cui viviamo rappresenta un impegno gravoso per il nostro sistema emotivo. Le preoccupazioni quotidiane sono portate all’esasperazione da una sensazione di incertezza sia per la nostra salute che per quella dei nostri cari, ma anche per le difficoltà economiche che una crisi mondiale di questo tipo comporta. La costante attenzione ad evitare il contagio, si scontra con il bisogno di normalità e di contatto con gli altri. Si propagano sensazioni di solitudine ed ansia.

La nostra società già imponeva situazioni in cui l’inquietudine era preponderante, contratti a tempo determinato, rapporti fragili con gli altri, a questo ci siamo abituati. Viviamo in una società liquida (Zygmunt Bauman) contraddistinta da un soggettivismo sfrenato, che adesso deve rinnovarsi. Ritrovare un senso di comunità appare necessario in momenti in cui i comportamenti sono improntati alla protezione e alla cura dei suoi membri. Il COVID ha infatti, cambiato la nostra realtà anche in modo significativo. La presenza delle mascherine, l’attenzione al contatto fisico, la percezione che qualcosa non vada e un po’ di ansia serpeggiante sotto la pelle.

C’è chi risponde agli stimoli ansiogeni e preoccupati dell’ambiente con la negazione, o con la minimizzazione e chi all’opposto è molto in ansia per paura di ammalarsi, chi si chiude in casa senza vedere nessuno e chi scende in piazza per manifestare. In molti sono più nervosi di prima, la sofferenza in fondo, agisce in modi diversi.

Tra le storie che mi sono giunte in studio ne vorrei raccontare alcune che mi sembrano significative ed interessanti.

Antonio e il trauma

Antonio lavora come OSS da molti anni in una struttura di ricovero. Nel periodo di marzo giugno 2020 ha affrontato il COVID che si era insinuato tra le mura della struttura in cui prestava servizio. Purtroppo ha visto morire molte persone, non solo i ricoverati ma anche molti colleghi. Lui stesso si è ammalato e ne è uscito per miracolo, con un periodo di reparto rianimazione. Il suo ricovero è durato più di un mese, alla dimissione ha dovuto andare in una clinica per la riabilitazione per un altro mese. Durante questo periodo ha iniziato ad avere gli incubi ed una grande ansia: di non riuscire a riprendersi, che le cose fuori fossero cambiate con la sua famiglia. Al ritorno a casa ha deciso che non voleva più tornare al suo lavoro, non gli era possibile entrare nel reparto, tutte le immagini dei molti colleghi che sono venuti a mancare, gli creava molta sofferenza.

Come molti pazienti che sono stati a stretto contatto con la malattia ha sviluppato un disturbo post traumatico da stress e nel momento in cui ha potuto rilassarsi circa la salvezza della sua vita, si è manifestato in tutta la sua drammaticità. Antonio ha ripreso il lavoro trasferendosi in un altro settore della struttura che non lo metteva a contatto con i reparti.

Giovanni e l’ansia sociale

Un timido studente Giovanni, con una bassa autostima, ma un funzionamento comunque adeguato, si è trovata a all’improvviso, con la chiusura delle scuole e le norme di distanziamento sociale, a non poter uscire di casa, a non riuscire a vedere i suoi amici. All’inizio era stato anche divertente, si vedevano virtualmente per giocare ai videogiochi. Con il passare del tempo la sensazione di trappola e la solitudine, malgrado la presenza della famiglia, è andata ad acuirsi. Nelle settimane di lockdown si sono manifestati sintomi ansiosi e una tendenza all’isolamento. Al momento di uscire di casa anche solo per buttare la spazzatura, presentava delle crisi di panico, con successivo decadimento depressivo a seguito di pensieri negativi su di sé.

La sintomatologia si è manifestata nel giro di pochi mesi in modo severo e ha destato la preoccupazione dei genitori che hanno cercato di aiutarlo per poi portarlo in terapia. Non tanto l’uscire di casa gli causava il disagio ma il dover interagire con qualcuno, il solo pensiero di essere osservato o interpellato lo metteva a disagio, le sue strategie di evitamento lo hanno portato a frequentare solo gli amici più stretti, la famiglie e la terapeuta.

Angela e la negazione

Angela giovane commessa in un supermercato, durante il lockdown di marzo-giugno, si è trovata impossibilitata ad andare a lavorare. Ha sviluppato una serie di sintomi, tosse, mal di gola, debolezza, ecc. che l’hanno costretta ad assentarsi dal negozio per lunghi periodi. La direzione del supermercato le ha chiesto di fare un tampone che è risultato negativo. Lei era comunque, sempre ammalata, finendo per essere licenziata. A giugno ha ripreso una vita normale trovando qualche difficoltà ad inserirsi nel mondo del lavoro. Il suo comportamento in realtà è stato ambivalente, durante il periodo in cui ha lavorato nel supermercato, si metteva in situazioni di rischio nella vita privata, per poi manifestare i sintomi nel momento in cui doveva andare a lavorare. La sintomatologia era sentita e vissuta come invalidante. Il pensiero di andare in un contesto come il supermercato in cui la paura della malattia era palpabile, la metteva a disagio mentre nel privato frequentava persone che dicevano che il COVID non era così pericoloso.

Angela non riusciva ad esprimere il suo convincimento della “scarsa pericolosità” al lavoro, né dubitare delle idee così rassicuranti del suo contesto casalingo. Il suo conflitto si esprimeva con i sintomi fisici che le permettevano di avere una ragione razionale per non presentarsi nel negozio.

A settembre Angela si è trovata nuovamente i difficoltà, il conflitto si è riproposto in tutta la sua drammaticità, complicato dal fatto che ad essersi contagiati sono persone a lei vicine, tanto che sia lei che i suoi conviventi hanno dovuto fare il tampone. Portandola ad avere nuovamente difficoltà ad andare a lavorare.

Giulia e l’ansia

Una giovane donna Giulia dovendo andare in ufficio a lavorare tre giorni a settimana, stava meglio. Persona ansiosa e in difficoltà nel vivere le incombenze lavorative serenamente, durante il lockdown si è sentita a suo agio. La sensazione di sospensione dalla realtà come se fosse una parentesi nella vita, le ha permesso di rilassarsi ed essere meno esigente con se stessa. La pandemia giustificava tutto, anche se ci fossero stati errori, non erano a suo avviso gravi, visto che la situazione sanitaria era critica: “non è un problema se faccio un errore, lo posso rimediare ma ci sono un sacco di persone che muoiono ”. La sospensione della realtà le permetteva di essere giustificata nel rimandare impegni ed incombenze, “faccio solo le cose più urgenti, le altre le rimando a dopo l’emergenza”, poteva non scegliere e non impegnarsi. i problemi sono iniziati quando il lockdown è finito.

Anche in questo caso, come per Giovanni, la situazione emergenziale, di blocco delle attività, ha portato la persona di seguire la patologia. Dare retta a quella parte di sé in mano all’ansia, la condizione di lockdown invece di contrastarla ha alimentato l’ansia che ha preso il sopravvento. Le difficoltà si sono riscontrate con la ripresa. La riapertura ha scatenato crisi d’ansia e ritiro di fronte al ritorno al ritmo pre-chiusura.

Riccardo e la depressione

Riccardo si è ammalato di COVID, sessantenne ha lottato duramente per sconfiggere la malattia, un ricovero molto lungo a cui è seguito un periodo di riabilitazione. Ma mentre in ospedale era coraggioso e positivo, nella clinica ha sviluppato sintomi depressivi. Nel momento in cui ha superato la fase più drammatica, in cui ha iniziato a rilassarsi. i pensieri sono stati: “non ce la faccio più”, “è troppo per me”, “non ne uscirò mai”. Il suo percorso di fisioterapia è stato difficile perché la sua collaborazione era minima, nonostante le rassicurazioni dei medici non riusciva a credere che oramai era fuori pericolo. Molto attento al suo stato di salute: ogni dolore o difficoltà diventava un ostacolo insormontabile, il suo pensiero era legato alla preoccupazione di un peggioramento. La lontananza dalla famiglia era sentita come insopportabile e definitiva, come se non sarebbe più tornato a casa. Tutto questo ha prolungato la durata del ricovero in riabilitazione.

Appena i medici hanno potuto lo hanno dimesso, preoccupati più del suo stato psicologico, che della salute fisica. Il ritorno in famiglia non ha portato un sollievo immediato al signor Riccardo che ha sviluppato incubi e pensieri ricorrenti legati al lungo periodo di degenza.

Marta e la fobia del contagio

Con settembre e la riapertura delle scuole studenti ed docenti hanno ripreso il ritmo quasi normale delle lezioni. Marta insegna in una suola elementare, persona d’età, si avvicina ai 60, il COVID, lo teme e molto. Diversi amici si sono ammalati e ne ha sentito il decorso, racconti che hanno contribuito ad aumentare il timore del contagio. Andare a scuola è diventata una sofferenza nonostante abbia sempre amato molto il suo lavoro e la classe che segue quest’anno la conosce già da diverso tempo, alunni con cui ha instaurato una buona relazione. Marta si sente in trappola, già da subito alcuni allievi si sono assentati perché i genitori erano, o in attesa del tampone oppure positivi, classi in quarantena, colleghi ammalati.

Ha iniziato ad affrontare le lezioni con due mascherine e la visiera in plexsiglass, utilizzando i prodotti per disinfettare in modo ossessivo e igienizzandosi spesso le mani. Verso i suoi giovani allievi è riuscita a mantenere il controllo scaricando le ansie e preoccupazioni solo su di sé. Non solo andare a scuola ma anche il solo uscire di casa è diventato uno sforzo immane.

Conclusioni

Le storie qui riportate rappresentano, in modo emotivamente intenso, solo alcune delle difficoltà che ci si trova a dover affrontare ogni giorno. Il benessere psicologico in un momento di cambiamento così repentino, è messo a dura prova. Essere costretti a strutturare nuove abitudini costringe a superare momenti di nervosismo, rifiuto, depressione ed ansia ed è superandoli che riusciamo ad adattarci. Siamo stati spinti fuori dalla nostra zona confort e costretti a far fronte ad una realtà diversa in cui è difficile stare. Non è semplice lasciarsi andare ed accettare la nostra nuova realtà ma irrigidirsi di fronte al cambiamento, opporsi, resistere, è frustrante, esaurisce le nostre energie e ci lascia inermi di fronte ad emozioni e sentimenti negativi.

Convivere col COVID significa alla fine proprio questo, riuscire a creare una realtà attorno a noi fatta di abitudini e significati che contemplano al loro interno le restrizioni dovute alla situazione pandemica. Nuove soluzioni per nuovi problemi, per una vita soddisfacente malgrado tutto.

Mancano tra queste storie le situazioni di coloro che a causa della pandemia si sono trovati in difficoltà finanziaria. La sofferenza psicologica qui può essere intensa, l’ansia e la depressione per la perdita della stabilità economica o della mera possibilità di sopravvivere pussono travolgere le persone. Ma questi non accedono allo studio privato del professionista. Tra gli incentivi che il governo ha pensato, mancono quelli per affrontare il disagio psichico, non sono stati nemmeno potenziati i servizi ad esso deputati, lasciando un penoso vuoto che di fatto abbandona le persone sofferenti a loro stesse. Malgrado il riconoscimento del bisogno e la necessità per le persone di poter affrontare la sofferenza nel contesto idoneo, non sono state offerte le opportune soluzioni. La speranza è che questa lacuna sia al più presto colmata.