Distrofie retiniche: l’impatto psicologico

Le distrofie retiniche causano la degenerazione della retina con ritmi e tempi diversi a seconda del tipo di malattia presente (Retinite Pigmentosa, Degenerazione Maculare Senile, ecc..), anche l’età di insorgenza può essere diversa. La patologia richiede all’individuo di strutturare una serie di strategie per affrontare il peggioramento della vista, non solo di tipo comportamentale-fisico ma anche psicologico.

La diagnosi, primo contatto con la malattia, ha un forte impatto emotivo anche se viene comunicata con estrema attenzione, proprio il carattere degenerativo e la irrimediabilità del danno, suscitano la sensazione di impotenza, depressione ecc..  La successiva restrizione del campo visivo, poi, produce la necessità di adattarsi e fronteggiare la nuova situazione.

Una delle sfide più difficili per l’ipovedente e il non vedente adulto è proprio quella della elaborazione dei vissuti relativi alla propria invalidità e l’accettazione della propria condizione. L’impatto emotivo con i problemi della vista cambia in relazione all’età in cui insorge la malattia. Ad esempio le persone che hanno “visto” solo per pochi anni durante l’infanzia ed hanno ormai raggiunto l’età adulta, possono rimpiangere il periodo di vita in cui vedevano e tutti i vantaggi che ciò loro comportava, tuttavia si tratta di un sentimento non più intenso, stemperato dagli anni e che diminuisce con il progressivo affievolirsi del ricordo e, solitamente, non incide negativamente sulla personalità del soggetto e sul suo adattamento sociale.
Molto diversa la reazione alla disabilità visiva di chi ha fruito per molto tempo della vista. In queste persone soprattutto se adulte, la reazione emozionale è intensa e  dolorosa. La reazione immediata può essere molto simile sia a livello del vissuto soggettivo che del comportamento a quella del lutto (una grave e dolorosa perdita). A livello più profondo essa può essere sentita addirittura come una perdita della propria identità poichè il cambiamento che richiede nello stile di vita e nella personalità, è tale da stravolgere l’immagine che il soggetto ha di sè. Vengono così messi in atto sentimenti di negazione non solo di fronte alla diagnosi ma anche agli ulteriori peggioramenti del visus.
Il buon esito di tale processo di cambiamento è legato alla capacità dell’individuo di integrare passato e presente, salvaguardando l’unità della sua persona pur accettando e promuovendo l’inevitabile cambiamento. In questo modo l’essere vedente o ipo o non vedente, potranno venire intesi come diversi attributi di un unico io, integrabili entrambi nella propria storia personale. Questo modo di risolvere la perdita permette all’individuo di recuperare interesse per il futuro senza negare e rimuovere il passato. Una cattiva soluzione dell’elaborazione della perdita porterà, invece, a una mancata integrazione del sé vedente con quello non vedente e a creare una situazione di perenne conflitto interiore, caratterizzata da atteggiamenti di rimpianto per un’identità perduta e idealizzata e di pietà, autocommiserazione e rifiuto per quella attuale spesso svalutata poiché non vissuta come fonte di nuove e valide possibilità esistenziali. In questo caso la dimensione della possibilità progettuale è attribuita solo al passato e ciò da luogo a una progressiva sfiducia nel futuro e a una diminuita attitudine ad elaborare piani e progetti.
La malattia ha un’influenza non solo sulla persona che ne è affetta ma anche sul suo nucleo familiare, nel senso di preoccupazione e desiderio di protezione (di questo tratterò approfonditamente in un articolo successivo).