L’incontro con l’altro, il “diverso”: stereotipi, pregiudizi e discriminazione

L’identità sociale è quella parte del concetto di sé che deriva dalla conoscenza della propria appartenenza a un gruppo o a più gruppi sociali insieme al valore e al significato emotivo riconosciuti a tale appartenenza.” (Tajfel, 1978)

Il diverso si può definire semplicemente come colui che la pensa diversamente, ha una cultura, tradizioni, religione, etc.. differente o presenta qualche peculiarità che si discosta dalla propria realtà come il disabile oppure ha un diverso orientamento sessuale. Esplorare l’universo dell’Altro, significa mettere in discussione il proprio e, talvolta, l’incontro diviene vero e proprio scontro per l’impossibilità di conciliare le diverse visioni. Se pensiamo, ad esempio, a pratiche quali l’uso del velo integrale risulta evidente quanto l’Altro sia portatore di modelli morali, estetici e di pensiero, in netto conflitto con i propri e pertanto difficilmente accettabili. Ogni nuovo incontro è di per sé “traumatico” perché obbliga ad un confronto con ciò che non si conosce ed incarna una minaccia alle proprie sicurezze e consuetudini. Lo straniero, cioè l’Altro per antonomasia, mette in discussione i fondamenti della nostra identità, spesso sulla base di idee stereotipate che nulla hanno a che fare con la realtà delle cose. L’uomo, infatti, possiede atteggiamenti che si basano sulle esperienze vissute individualmente ma anche comportamenti che derivano da idee basate su pregiudizi e stereotipi.

Per stereotipo si intende un insieme di opinioni e giudizi su una classe di individui o di oggetti, una credenza in base alla quale un gruppo di persone attribuisce delle caratteristiche ad un altro gruppo. Gli stereotipi sono parte della cultura del gruppo a cui si appartiene e, come tali, vengono acquisiti dai singoli e utilizzati per comprendere la realtà. Il concetto di stereotipo è astratto e può avere un significato neutrale, positivo o negativo e rispecchia l’opinione di un gruppo sociale riguardo ad altri gruppi. Sono raffigurazioni largamente condivise: ad esempio l’immagine tipica che abbiamo di un avvocato lo raffigura uomo, vestito in modo elegante, serio e con un’ottima capacità verbale. Allo stesso modo se visualizziamo un infermiere si penserò ad una donna gentile nei modi.

In genere si creano degli stereotipi per il bisogno della nostra mente di semplificare il mondo. Queste possono essere considerate delle vere e proprie euristiche cioè scorciatoie di pensiero che vengono utilizzate dalla nostra mente per dare un senso alla complessa realtà che incontra. Lo stereotipo è utile alla nostra capacità di pensiero quando non abbiamo necessità di spendere troppe energie per ottenere informazioni, in questo modo categorizziamo la realtà per renderla meno ignota, comprensibile. Il comportamento viene guidato da queste idee e quindi quando si incontra un avvocato si avrà un comportamento adattato all’idea che si ha degli “avvocati” e sarà diverso da quello adottato quando si incontra un insegnante. Gli stereotipi per quanto utili hanno degli aspetti negativi perché possono condurre ad errori di categorizzazione come il sottovalutazione delle differenze intergruppi e sopravvalutazione delle differenze tra gruppi. Con questo tipo di generalizzazione, infatti, si tende ad attribuire in modo indistinto precise caratteristiche a un’intera categoria di persone, trascurando tutte le possibili differenze che potrebbero esserci tra i diversi componenti di tale categoria. Ad esempio ci può essere la convinzione che tutte le donne non sappiano guidare all’opposto degli uomini, per cui una donna che ha difficoltà in un parcheggio confermerà la nostra idea ma un uomo nella stessa situazione non intaccherà il nostro pregiudizio perché verrà valutato come un’eccezione alla regola.

Infatti specialmente negli stereotipi negativi, si tende a generalizzare una certa immagine di un gruppo, tale da convincere le persone che tutti gli individui di quel gruppo possiedono tali caratteristiche nella stessa misura, senza tenere conto delle variazioni individuali. Tuttavia, per gli individui, esso assume una funzione di tipo difensivo, contribuendo al mantenimento della cultura e alla salvaguardia delle posizioni da loro acquisite.

Gli stereotipi possiedono una certa rigidità in quanto, una volta formati, sono difficilmente mutabili, ed ancorati bene nella cultura e nella personalità tanto da resistere ai cambiamenti. La parola stereotipo deriva dal greco compasta da stereos che significa “duro, rigido” e da typos “impressione”.

Il concetto di stereotipo è strettamente correlato a quello di pregiudizio, esso è infatti, la base su cui si sviluppa in seguito il pregiudizio.

Il pregiudizio indica un giudizio che viene prima dell’esperienza o in assenza di dati effettivi, che può essere più o meno errato. È un’opinione preconcetta, concepita non per conoscenza precisa e diretta del fatto o della persona, ma sulla base di voci e opinioni comuni. Un pensiero diventa pregiudizio solo quando resta irreversibile anche alla luce di nuove conoscenze.

Un pregiudizio può essere considerato un atteggiamento e può essere trasmesso socialmente, così ogni società avrà dei pregiudizi più o meno condivisi da tutti i suoi componenti. Inoltre, riflessione valida anche nel caso degli stereotipi, si tende a formare dei pregiudizi relativamente a persone appartenenti ad un gruppo diverso dal proprio, di cui si ha una conoscenza superficiale, e di cui non si è in grado di vedere differenziazioni interne.

Spesso il nutrire pregiudizi su determinate categorie di persone porta, a modellare il comportamento sulla base delle credenze, con la conseguenza di sviluppare condizioni tali per cui ipotesi formulate sulla base di pregiudizi si verificano (profezie che si autoavverano). Naturalmente questi comportamenti porteranno poi al rafforzamento degli stereotipi stessi.

Si può leggere la caratteristica puramente negativa del terminecome di un giudizio immotivato che precede la reale conoscenza. Il significato più specifico è la tendenza a considerare in modo sfavorevole le persone che appartengono a un certo gruppo sociale.

Tecnicamente il pregiudizio può essere positivo o negativo, però in termini generali esso è un atteggiamento ostile nei confronti dei membri di un gruppo solamente perché appartengono a quel gruppo. Rappresenta una modalità diffusa di reagire ad una diversità dal proprio gruppo di appartenenza. Questo processo attribuisce ad una persona sconosciuta i tratti e le caratteristiche tipiche del suo gruppo di appartenenza: tutti gli italiani mangiano spaghetti.

Il pregiudizio è composto tre componenti: quella cognitiva, che rappresenta l’insieme dei concetti e della percezione che si ha nei confronti di un oggetto o di una classe di oggetti: lo stereotipo; la componente affettiva, che consiste nei sentimenti che si hanno nei confronti di un oggetto o di una classe di oggetti, infine quella comportamentale, ossia il tipo di azione che rivolgiamo nei confronti di un oggetto o di una classe di oggetti: la discriminazione.  Lo stereotipo rappresenta l’idea sul quale si innesca il pregiudizio che è l’atteggiamento positivo o negativo che a sua volta può condurre direttamente al comportamento di discriminazione dell’altro considerato diverso.

Il pregiudizio è, quindi, un particolare atteggiamento di risposta, positiva o negativa, nei confronti di una persona qualora appartenga ad una determinata categoria. I pregiudizi dovuti a credenze stereotipate e una reazione emotiva negativa portano al fenomeno della discriminazione, ovvero quel comportamento scorretto, ingiustificato e dannoso nei confronti di membri di un gruppo a causa dell’appartenenza a quel preciso insieme, che poi sfocia nella stigmatizzazione, in cui un membro della comunità viene declassato a un livello inferiore.

La discriminazione può avere, su chi la subisce, diversi effetti: si aderisce al modello proposto in questo modo si attacca alla propria autostima, infatti, sentendosi inferiori, si pensa di non valere nulla; un’altra conseguenza può essere una qualche volontà di fallire. Dai suoi studi Rotter è giunto alla conclusione che l’impegno che si mette nel perseguire obiettivi di successo è legato alla percezione personale di poter raggiungere l’obiettivo e quindi di avere successo ma le vittime di discriminazione con bassa autostima e paura di avere successo sviluppino una tendenza autolesionista. Anche la Horner, ha notato un comportamento di questo tipo tra le donne, la cui ansia rispetto al raggiungimento del successo, le cui aspettative sono negative, le fanno ottenere minore successo professionale. Le vittime della discriminazione appaiono comportarsi in modo da validare i pregiudizi che si hanno nei loro confronti, le profezie che si auto avverano.

La discriminazione non è sempre una realtà immediatamente visibile ma si po’ realizzare attraverso meccanismi e sfumature complesse, in ambiti e da fonti diverse: da singoli individui o da gruppi, dalle leggi, dalle prassi, da regolamenti, circolari e ordinanze emanate dagli enti pubblici; di conseguenza si determina una notevole discrepanza tra l’incidenza reale degli episodi patiti e la percezione soggettiva di tale esperienza. Di fronte ad atti di discriminazione e violenza, a volte determinanti sul decorso della vita delle persone, la percezione critica dell’accaduto risulta fortemente sottodimensionata. Per questo motivo una misurazione delle discriminazioni effettive rimane problematica, visto che il riconoscimento e la coscienza delle discriminazioni subite non sono sempre scontati.

Quindi lo stereotipo è una scorciatoia che utilizza inconsapevolmente la nostra mente per ottenere informazioni e il pregiudizio è parte di ognuno di noi come tentativo di proteggerci da qualcosa che non conosciamo, di diverso mentre la discriminazione è l’azione con cui si realizza il pregiudizio negativo.

Conclusioni

Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, cogli l’occasione per comprendere.
(Pablo Picasso)

La soluzione non è facile né tanto meno a portata di mano. Di certo non risiede nel rifiuto acritico dell’incontro, né nella supremazia del modello culturale ritenuto “giusto” su quello “sbagliato”. Attraverso questi “segni”, infatti, l’Altro intrattiene un rapporto di appartenenza con le proprie origini attorno alle quali ciascun essere umano struttura il proprio senso di “identità” e di cui non può essere violentemente privato. In quest’epoca così densa di “passaggi”, di confini superati e ridisegnati, fisici, culturali, psicologici, è necessario affrontare la questione della pretesa centralità culturale del mondo Occidentale attraverso un vero dialogo tra culture e tra persone, ovvero superare l’etnocentrismo a favore di una reale accettazione dell’Altro, sia esso uno straniero, di sesso diverso, un disabile, un omosessuale o facente parte di un diverso gruppo religioso. E’ necessario pertanto trovare “insieme” una modalità di confronto che trascenda quella abitualmente utilizzata. Ma questo lavoro implica uno sforzo che dovrà prendere vita attraverso un processo di arricchimento dei nostri modelli interpretativi, dei nostri usi e costumi per “com-prendere”, nel senso etimologico della parola, il mondo dell’Altro, rendendo nello stesso tempo il nostro comprensibile a che vi si avvicina.

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