Il gruppo di self-help. Auto mutuo aiuto

L’inserimento o meno all’interno dei propri gruppi di appartenenza è un nodo cruciale nella vita di chiunque: un aspetto che può essere, a seconda dei casi, fattore di protezione o fattore di disagio-rischio.

La creazione di un gruppo di auto aiuto nasce dal bisogno di condivisione e sostegno emotivo causato da un problema che è comune ai membri.

I gruppi di auto – aiuto sono dei piccoli gruppi di persone che condividono la stessa situazione di vita o le stesse difficoltà. Si costituiscono volontariamente per cercare di soddisfare un bisogno, superare un problema, ottenere un cambiamento in maniera reciproca.

 

Ci sono diversi tipi di gruppi di auto – aiuto: quelli formati da persone che condividono un handicap o una malattia cronica (anche mentale), quelli costituiti da persone che vogliono cambiare una abitudine, un comportamento (ad esempio gli Alcolisti Anonimi), quelli organizzati da familiari di persone con gravi problemi, gruppi di persone che attraversano un periodo di crisi (un lutto, una separazione), o un periodo positivo ma che cambia radicalmente le loro vite (es. nascita di un figlio),o infine, persone che devono affrontare una situazione o un cambiamento che influisce sulle loro identità (es. al menopausa, il pensionamento).

Il gruppo ha lo scopo di migliorare le capacità sia psicologiche che  comportamentali dei partecipanti. “L’intento comune di tutti i gruppi di auto – aiuto è quello di trasformare coloro che domandano aiuto in persone in grado di fornirlo” (Martini, Sequi, 1988 ), aumentando la padronanza e il controllo sui problemi, in una parola, l ’ auto – efficacia dei partecipanti.

L’essere sia fruitore che fornitore di aiuto, infatti, innesca un efficace meccanismo di sblocco della passività nel senso dell’impotenza e della sfiducia in se stessi. Vedere che anche gli altri vivono ed affrontano le stesse problematiche permette ai membri del gruppo di superare il proprio isolamento e di creare momenti di forte solidarietà e cooperazione. Conoscere persone che hanno attraversato o stanno attraversando le stesse difficoltà, infatti, fa sentire meno soli e aiuta a capire che sentimenti e reazioni che sembrano “cattivi” o “folli “, non sono affatto tali. Inoltre incontrare persone che hanno superato gli stessi problemi, o hanno trovato modi ottimali per affrontarli e gestirli può regalare speranza e ottimismo. In tal modo, la situazione gruppale si propone quale luogo in cui riuscire a condividere una situazione altamente ansiogena e dolorosa.

Non solo. Il gruppo assume anche una funzione di sostegno e difesa dallo stress, visto che è composto da persone che condividono una situazione o una condizione più o meno stressante, permette di accrescere la capacità di far fronte allo stress attraverso il mutuo supporto e la messa in comune di strategie efficaci. Una delle funzioni dei gruppi di auto aiuto è proprio quella di “insegnare” ai membri strategie di fronteggiamento (copyng) dello stress, per affrontarne nel miglior modo possibile le cause e le emozioni correlate. Il un gruppo di auto – aiuto quindi, offre un sostegno informativo ed un supporto emotivo

Un’altra importante caratteristica del gruppo di auto aiuto è quella di poter funzionare anche senza l’ausilio di “esperti”, il contesto è infatti quello di relazione tra pari: l’assenza di un conduttore professionista, permette a ciascun membro di non poter delegare la responsabilità del proprio percorso e, dunque, la responsabilità complessiva di sé. I membri sono quindi tutti ugualmente responsabili dei risultati raggiunti e dei servizi forniti.

E’ prevista tuttavia, una figura di facilitatore.  Si tratta di un membro del gruppo, che ha seguito una specifica formazione, finalizzata a fornirgli gli strumenti di gestione della comunicazione, e che ha solo la funzione del facilitatore della comunicazione stessa.

Con questo patrimonio conoscitivo ed esperienziale ed essendo, in più, portatore dello stesso problema degli altri, l’helper può permettersi di portare, all’interno del gruppo, il proprio vissuto emotivo e di utilizzare l’esperienza gruppale per la sua personale crescita.

Il ruolo dello psicologo, se presente, nel gruppo è quello di accompagnamento nel percorso generativo e creativo, che il gruppo avvia e mantiene, in modo da rispettare il sapere e il sapersi di ogni membro del gruppo stesso, e la capacità di scambiarsi esperienze e consigli valorizzando l’essere “esperti” e protagonisti della propria vicenda.

 

Il gruppo è centrato sulle “dinamiche” relazionali dei soggetti e sul confronto tra le diverse soluzioni individuate da ciascuno nelle varie situazioni, il fronteggiamento delle situazioni stressanti.

Non bisogna dimenticare, infatti, che il fattore stress è partecipante nell’aggravamento dei sintomi di alcune patologie e nell’aggravamento nella capacità di adattamento nell’ambiente proprio come reazione allo stress. Per questo il sostegno sociale, effettuabile attraverso i gruppi di self-help, può funzionare come moderatore dello stress stesso, esso, infatti, può:

  • ridurre la quantità e la qualità negativa degli stimoli stressanti;
  • attenuare o ridefinire la percezione degli stimoli come stressanti;
  • alleviare l’impatto emotivo e psicologico di tali stimoli; favorire risposte attive ed adattive.

Oltre a questo, sono affrontabili in gruppo, diverse classi di difficoltà e problemi come, ad esempio, quelli relazionali familiari. È esperienza comune la difficoltà a comunicare ai propri familiari la sofferenza e i limiti che alcune problematiche portano, soprattutto rispetto

A volte, vi è una rinuncia a parlare del problema, nel desiderio di proteggere i familiari e/o se stessi dalla sofferenza che il pensiero suscita. La difficoltà a condividere con i familiari le proprie preoccupazioni e i vissuti di sofferenza, la rinuncia a comunicare sul problema, genera dei circuiti relazionali che intrappolano la famiglia in processi senza uscita: se il membro sofferente nega il problema, i familiari possono sentirsi sollevati, se invece il membro “malato” decide di contare solo sulle sue forze, i familiari pensano di interagire con una persona autosufficiente.

Sono processi che possono generare “tranquillità” ma anche alimentare vissuti di solitudine ed incomprensione reciproca tra il membro sofferente e i suoi familiari.

Il gruppo aiuta a porre la relazione con i familiari in una dimensione diversa, attraverso un percorso, che li porta a condividere con i familiari i limiti e le risorse della loro condizione di malattia. Questo processo di “esteriorizzazione del problema” (porre il problema al di fuori di sè), per cui esso è affrontabile come distinto e separato dalla persona, consente al partecipante e ai suoi parenti di parlare del problema e di unire le forze alla ricerca di soluzioni, recuperando risorse e competenze.

Infine per i familiari di persone affette da una malattia cronica, il gruppo offre vari tipi di sostegno, che aiutano ad alleviare lo stress, o a chiarire dubbi e paure. Si va quindi dallo scambio di informazioni, all’ascolto e al supporto emotivo nei momenti di stanchezza e depressione, ma anche l’aiuto materiale, come ad esempio sostituzioni nel prendersi cura dell’ammalato e potersi così permettere una “vacanza dal problema” importanti per evitare di accumulare troppo stress. Questi gruppi si mobilitano anche per ottenere prestazioni che migliorino la qualità della vita dei loro cari.

L’immagine di sé è un altro importante tema affrontabile in gruppo. Il problema della definizione continua dell’immagine di sé che ogni individuo compie, anche attraverso le conferme e le disconferme, che riceve nell’interazione con l’altro, nei soggetti affetti da disturbo diventa più travagliato, innanzitutto perché c’è la perdita di un complesso di segnali percettivi non verbali che, normalmente, ci consentono di cogliere il ritorno del nostro interlocutore, tale processo di decodifica del giudizio dell’altro risulta più complesso e dà il via a fantasie.

Il fatto di temere il giudizio esterno porta i soggetti retinici a riprodurre, anche nel contesto dei rapporti extrafamiliari, le difficoltà a parlare della malattia e la tendenza a “far finta di essere sani” che magari usano in famiglia, con il risultato di essere fraintesi.

In particolare nei gruppi di auto – aiuto formati da persone che condividono una malattia cronica, i componenti non si sentono più compatiti per la loro situazione, riescono ad “abbassare” le difese e ad esprimere non solo sentimenti di rabbia, di tristezza, ma anche orgoglio per essere riusciti a dare un senso alla propria vita nonostante il peso più difficile che portano con sé. Aiutare gli altri, infatti, accresce la propria autostima, aumenta il livello di competenza interpersonale. La persona nota che riesce ad ottenere un equilibrio tra il dare e l’avere, e riproponendole ad altri, consolida quelle strategie di cambiamento che ha acquisito a sua volta. Questo è particolarmente importante per coloro che sono a volte costretti ad essere aiutati da altri, che così traggono fierezza, soddisfazione nel sostenere a loro volta altre persone, nel vedere che può anche dipendere da loro, sperimentando l’interdipendenza reciproca.

Il riconoscimento e la consapevolezza della propria competenza, infine, dovrebbe consentire al gruppo di agevolare, in futuro, altri soggetti con difficoltà nel loro processo di recupero di quelle capacità e risorse che la sofferenza della malattia rischia di offuscare.

 

Una metafora utile per definire gli spazi e creare un vissuto che col tempo possa divenire da personale a condiviso:

Sedersi in modo circolare, dalla prima volta. Immaginarsi un pentolone al centro del cerchio, come quelli delle vecchie nonne (o delle leggendarie streghe), di volta in volta, chi vuole, può aggiungere le proprie esperienze, può “buttarvi” le proprie idee così come fossero ingredienti per preparare un minestrone. Il fuoco viene alimentato dalla motivazione a partecipare, a mettersi in gioco tutti insieme. La fiamma, continuamente accesa, permette ad ogni componente di amalgamarsi con gli altri. Il mestolo nel pentolone viene fatto girare con attenzione e pazienza: ciò  permette di non far bruciare il “minestrone” che diviene così via, via sempre più saporito ed omogeneo.

Il ruolo del facilitatore è quello, specie in fase iniziale, di dare una particolare attenzione ai tempi di cottura, alla velocità con cui far girare il mestolo, alla forza da dare al fuoco affinché né si spenga né possa scottare, contribuendo comunque anch’egli con i suoi ingredienti, un’attenzione che con il tempo diviene anch’essa sapere condiviso del gruppo, e che quindi viene come ogni altra cosa tutelata da tutti i membri che vi partecipano.

L’unica differenza con i vecchi minestroni delle nonne, è che qui non ci sono ricette predefinite, non ci sono misure di giudizio da poter dare su ogni elemento aggiunto e sulla quantità che ciascuno versa nel pentolone: anzi ciò che si vuole è proprio creare una ricetta del tutto nuova e per questo unica del gruppo stesso.

Questa metafora può aiutare per ridefinire il contributo che ognuno  può fornire, per dare uno spazio intorno cui riunirsi, per porre attenzione alle regole che comunque vanno seguite in alcuni casi al fine di non sciupare qualcosa che appartiene a tutti.

Con il tempo gli ingredienti che ciascuno porta cambiano: chi ha contribuito prima con il silenzio e l’ascolto, poi con le lacrime, poi con tante parole; chi invece non ha trovato difficoltà a raccontare le proprie esperienze sin dall’inizio e ha fornito nel tempo più attenzione a ciò che dicevano gli altri; chi ha assunto un ruolo più direttivo, chi invece si lascia più guidare dallo spirito e dall’umore del gruppo.

 

Irvin Yalom (Yalom, 1995) identifica  11 fattori che contribuiscono a far sì che la terapia di gruppo dia un utile sostegno a chi vi partecipa:

Prima tra tutti la capacità del gruppo di dare speranza: il confronto con chi condivide lo stesso problema, ma che può fornire una visione alternativa di esso e una diversa capacità di risoluzione, offre sicuramente una possibilità di rinnovare e rinforzare la speranza per superarlo. Ad essa molto collegata è la forza data dalla condivisione dei membri: già in uno dei più noti detti popolari viene citato “mal comune mezzo gaudio”. Molto più il fatto di condividere un problema e le emozioni ad esso correlate aiuta le persone a sentirsi meno sole, ad avere una minore sensazione di dover sopportare un peso che le isola dal resto del mondo. Inoltre la partecipazione del gruppo offre la possibilità di acquisire nuove informazioni, da quelle più pratiche e quotidiane a quelle di interesse più squisitamente personale; parteciparvi facilita l’ acquisizione di competenze relazionali e di stili comunicativi più efficaci rispetto a quelli che possono essere sperimentati altrove. Un altro aspetto da non sottovalutare è il fattore catartico che può accompagnare gli incontri del gruppo.

Effettivamente, anche dalle parole stesse delle persone che vi partecipano, ho potuto verificare la presenza di alcuni di questi fattori e l’efficacia che hanno nel migliorare la qualità di vita percepita di chi li sperimenta.

Ho constatato come questo tipo di gruppi possano divenire un valido strumento  attraverso cui alleviare il disagio psicologico-sociale presente in alcuni casi, o comunque promuovere aggregazione in una società come la nostra. Esso favorisce infatti l’inserimento delle persone in contesti nei quali potersi esprimere e confrontare, superando in alcuni casi il senso di solitudine o di isolamento.

 

Facilitatore

Non si utilizzano operatori professionali, se non per un ruolo definito e mai centrale, poiché la caratteristica dell’autonomia è fondamentale in un gruppo di supporto.

 

Non è facile delineare i confini del facilitatore all’interno del gruppo. Lieberman (Lieberman,1990) evidenzia quanto la figura del facilitatore nell’auto-aiuto sia diversa da quello dello psicologo all’interno di un gruppo terapeutico. Il terapeuta assume una certa distanza rispetto al gruppo, non esponendosi mai con i propri vissuti personali, mentre il facilitatore parla di sé e si mette sullo stesso piano rispetto agli altri membri, pur rimanendo consapevole della propria funzione. Inoltre lo psicoterapeuta utilizza tecniche specifiche per lavorare sulle dinamiche del gruppo focalizzandosi su di esse; nell’auto-aiuto invece il facilitatore non è tenuto ad utilizzare tecniche specifiche ed anzi, cerca di non focalizzarsi sui ruoli assunti dai  soggetti, ma sul problema che essi condividono. In questo modo mentre nella terapia vengono evidenziate le singolarità di ogni esperienza soggettiva, nel gruppo di auto-aiuto ognuno cerca di condividere con gli altri il motivo stesso che li porta lì, mettendolo su un piano comune.

Non è certo facile tuttavia distinguere in alcuni momenti i confini tra l’uno e l’altro. Facilitare la possibilità di esprimersi di ogni componente imparando a fare caso ai tempi di ciascuno; cercare di far emergere i comportamenti che possono risultare più adattivi in modo da poter fornire validi esempi, senza far prevaricare un individuo sull’altro; rafforzare la coesione cercando di contenere le emozioni, specialmente la rabbia, che può emergere in un gruppo con tali vissuti; cercare di non farsi coinvolgere nelle dinamiche che prendono forza all’interno e nelle quali si rischia altrimenti di perpetuare meccanismi che non favoriscono lo sviluppo del gruppo stesso.

Comprendere quelle che Spaltro definisce le principali fenomenologie di gruppo (Marocci, 2000): cercare di smorzare gli atteggiamenti di difesa, cioè le resistenze che gli individui possono attuare verso il gruppo stesso ( il lamento per evitare l’aiuto, gli attacchi e le fughe, un dialogo costante tra solo due membri); supportare gli “episodi”,  cioè i momenti di difficoltà (transfert, dipendenze, controdipendenze, fissità della leadership); favorire i “fenomeni”, cioè la gestione positiva dei conflitti, per un progressivo consolidamento del gruppo ( l’interdipendenza, la socializzazione del linguaggio, la circolazione della leadership, l’accettazione delle differenze).

Essere  facilitatore permette infatti di mettersi in gioco insieme ai componenti del gruppo e di imparare da loro e dalle loro esperienze. Condividere emozioni e vissuti di realtà che ci sono accanto tutti i giorni, ma che troppo spesso ignoriamo o alle quali non diamo un’ adeguata attenzione; vedere come la forza dell’animo umano cerchi di adattarsi alle prove che gli si presentano davanti nel corso della vita; notare come quel riunirsi in gruppo possa facilitare tutto ciò.

Il gruppo stesso è diventato a sua volta un “facilitatore” che aiuta ogni suoi membro a vivere esperienze o elaborare vissuti significativi, in base a quelle che sono le aspettative e le possibilità di ciascuno.

Il facilitatore continua a far ruotare “il mestolo” nel pentolone al fine di amalgamare sempre più ciascun contributo, “il gruppo sia qualcosa di più e diverso della somma delle sue singole parti” (Lewin,1935).

 

GRUPPI DI AUTO – AIUTO: DOVE, COME E PERCHE’

Ecco quattro buoni motivi per costituire un gruppo di auto – aiuto:

Per un supporto emotivo
Per un sostegno informativo
Per un aiuto materiale
Per un’azione politico – sociale a difesa dei propri diritti.

Nei gruppi di auto-aiuto le persone escono dal ruolo di consumatori, da una situazione di passività e diventano protagoniste, spesso dopo aver affrontato situazioni di grave disagio a cui i sistemi socio sanitari e politici non sono riusciti a dare una risposta sufficientemente rassicurante e adeguata, o magari non l’hanno data affatto.

. Una delle funzioni dei gruppi di auto aiuto è proprio quella di “insegnare” ai membri strategie di fronteggiamento dello stress, per affrontarne nel miglior modo possibile le cause e le emozioni correlate.

Si acquisiscono le competenze per avere il maggior controllo possibile sul problema, invece di esserne controllati.

L’accento sulla parità dei membri rende tutti ugualmente responsabili dei risultati raggiunti e dei servizi forniti. Il clima è spontaneo ed informale, e il fatto di dare aiuto, oltre che riceverlo, aiuta a liberarsi dal senso di impotenza e di sfiducia in se stessi che spesso si prova in queste situazioni.

Aiutare gli altri accresce la propria autostima, aumenta il livello di competenza interpersonale. La persona nota che riesce ad ottenere un equilibrio tra il dare e l’avere, e riproponendole ad altri, consolida quelle strategie di cambiamento che ha acquisito a sua volta.

Questo è particolarmente importante per coloro che sono a volte costretti ad essere aiutati e a dipendere da altri, che così traggono fierezza, soddisfazione nel sostenere a loro volta altre persone, nel vedere che può anche dipendere da loro, sperimentando l’interdipendenza reciproca.

Le aspettative verso il gruppo di auto-aiuto

Ci sono diverse aspettative che potrei avere verso il gruppo di auto-aiuto:

  • voglio conoscere meglio me stesso,
  • voglio acquisire nuove conoscenze sulla malattia,
  • cerco una rete di supporto per momenti di crisi,
  • ho bisogno di comunicare,
  • vorrei imparare a convivere con la malattia,
  • cerco delle persone amiche da frequentare nel tempo libero,
  • vorrei aiutare me stesso e dare anche una mano agli altri,
  • voglio impegnarmi pubblicamente nella lotta contro la stigmatizzazione, ecc.

Nessun gruppo di auto-aiuto può soddisfare tutte queste aspettative contemporaneamente. Per questo motivo devo chiedere a me stesso e a il mio gruppo di auto-aiuto: Cosa è importante per me? Cosa è importante per noi?

 

Qualche suggerimento pratico per l’organizzazione di un primo incontro di un gruppo di auto – aiuto. Condizioni di massima per gruppi di auto-aiuto è importante che i partecipanti si sentano a loro agio così da trarre profitto dal gruppo.  All’inizio  i partecipanti del gruppo si dovrebbero accordare sugli obiettivi comuni e sulle regole da osservare nel gruppo. Eventuali cambiamenti vanno fatti sempre di comune accordo.

Disponete le sedie in cerchio, in modo da potervi guardare tutti in viso e cercate di cominciare all’ora fissata, senza ritardi. Iniziate presentandovi solo col vostro nome di battesimo, usando il “tu”, dando una motivazione del perché avete voluto partecipare a questo incontro. Gioverà a ciascuno e aiuterà a creare tra di voi un legame di appartenenza.

  1. Informare per avere utenti: iniziare una specie di tam – tam.
  2. Il luogo degli incontri del gruppo Trovare una sede, anche provvisoria, per gli incontri. Sarebbe meglio che non ci si incontrasse in una casa: l’ambiente domestico è pieno di distrazioni, dal telefono che squilla, al vicino che suona alla porta, al ruolo di “padrone di casa” che inevitabilmente si farebbe sentire. Meglio un ambiente neutro, come un locale di un Ospedale, del Comune di appartenenza, di un Centro sociale o di una associazione di volontariato che disponga di sufficiente spazio per ospitare il gruppo.  
  1. Disponete le sedie in cerchio, in modo da potervi guardare tutti in viso e cercate di cominciare all’ora fissata, senza ritardi.
  2. Iniziate presentandovi solo col vostro nome di battesimo, usando il “tu”, dando una motivazione del perché avete voluto partecipare a questo incontro. Gioverà a ciascuno e aiuterà a creare tra di voi un legame di appartenenza. Può iniziare a parlare l’organizzatore del gruppo, chiarendo subito e con decisione alcuni punti:
  • Che tutto ciò che verrà detto nel gruppo, nel gruppo rimarrà.
  • Che chi non se la sente ancora di parlare, non è obbligato a farlo, non subirà alcuna pressione in tal senso, né verrà giudicato negativamente per questo motivo. Semplicemente “regalerà” le sue confidenze in un altro momento. Tutti hanno i propri tempi e le proprie necessità.
  • Che nessuno verrà criticato per quello che fa o non fa, presente o assente che sia.
  1. Emergeranno bisogni, paure, problemi, ma anche proposte: sarebbe utile che a turno si tenesse un verbale della riunione, da riguardare e commentare alla fine dell’incontro, e da cui trarre spunti per stilare un ordine del giorno per la prossima volta e per promuovere attività “ad hoc” come gruppi di incontro medici – pazienti, linee “calde” telefoniche, incontri con legali per conoscere i propri diritti e farli valere, organizzare incontri informali, accostare nuovi membri.
  2. Durante la riunione evitate di mangiare, bere, e fumare. Se è il caso di concedervi un rinfresco prima o dopo la riunione
  3. La frequenza degli incontri La maggior parte dei gruppi si incontra ogni 2 settimane. Gli incontri settimanali vanno bene solo per brevi periodi. Incontrarsi soltanto una volta al mese invece ha lo svantaggio che ci vuole molto più tempo prima che si crei fiducia tra i partecipanti. Potete riservarvi qualche minuto alla fine della riunione per discutere dove e quando dovrà riunirsi il gruppo la volta seguente,
  4. La partecipazione La partecipazione regolare ha un effetto benefico sull’ambiente del gruppo. Se decido di partecipare lo voglio fare regolarmente. In caso di assenza avviso per tempo per evitare che gli altri partecipanti stiano inutilmente in pensiero.
  5. La responsabilità del gruppo Il gruppo concorda lo svolgimento del programma (invitare uno specialista, organizzare una cena o una festa, un evento pubblico per informare, ecc.). Se un partecipante manca alla riunione del gruppo senza aver avvisato o se si sa che un membro del gruppo sta male, vediamo insieme chi si prende l’incombenza di informarsi.
  6. L’organizzazione degli incontri Non solo ogni persona è unica, anche ogni gruppo lo è. In certi gruppi gli incontri sono strutturati in modo chiaro: giro iniziale, discussione e giro finale. In altri gruppi lo svolgimento degli incontri è molto libero e spontaneo, ecc. Importante è, come già accennato, che la forma “giusta” degli incontri sia appropriata e gestita in modo consensuale.
  7. Imparare gli uni dagli altri Quando un membro del gruppo racconta un suo vissuto possiamo chiederci:
  • Come mi sarei sentito io in una situazione simile, come avrei reagito?
  • Come sono riuscito a risolvere una situazione analoga?

Facendo così siamo sempre coinvolti e non ci spazientiamo se la situazione di un singolo partecipante è nel centro dell’attenzione.

  1. Come condurre gli incontri Nel gruppo decidiamo se desideriamo scegliere un moderatore per gli incontri. Il moderatore gestisce gli interventi e sta attento affinché si rimanga in tema, monitorando che tutti abbiano l’occasione di esprimersi.

per stabilire e discutere le norme da seguire, e per porvi alcune domande come:

  • “Cosa credete che abbiamo conseguito oggi?
  • Abbiamo seguito l’ordine del giorno? Se no, le diversioni sono state utili e rispondenti ai bisogni dei partecipanti?
  • Quale fase della riunione ritenete sia andata nel modo migliore? Che cosa vorreste approfondire nelle riunioni future?
  • Che cosa non è andato bene? Perché? Come potremo correggerlo nel futuro?
  • E’ stata programmata un’adeguata procedura per verificare a posteriori se i suggerimenti che hanno ricevuto il generale sostegno saranno effettivamente applicati?
  • Credi che qualcosa sia stata davvero ottenuta? Ti senti allo stesso modo o meglio?
  • Hanno tutti avuto un’opportunità soddisfacente di esprimersi? Qualcuno è stato trascurato? La discussione è stata tenuta troppo a freno? E’ stato permesso di divagare troppo?” (Silverman, 1989)
  1. Alla fine dell’incontro concedetevi qualche minuto per tenervi per mano in silenzio. Ripetete questa semplice azione alla fine di ogni riunione.
  2. Può capitare di sentirsi un po’ giù di corda alla fine dell’incontro perché ci si è fatti carico dei problemi degli altri o magari si sono ascoltate storie cliniche più serie delle proprie. Non scoraggiatevi! Avete fatto il passo più importante e coraggioso: uscire da voi stessi e incontrare l’altro. Ora ne dovete compiere un altro e un altro ancora. Insieme.

 

  • Le regole

 

  • L’obbligo di mantenere la riservatezza Tutto ciò che verrà detto nel gruppo, nel gruppo rimarrà. Tutto quanto viene discusso nel gruppo è strettamente confidenziale. Questo è una prerogativa indispensabile per costruire e mantenere la fiducia tra i partecipanti.
  • Parlare nel gruppo chi non se la sente ancora di parlare, non è obbligato a farlo, non subirà alcuna pressione in tal senso, né verrà giudicato negativamente per questo motivo. Semplicemente “regalerà” le sue confidenze in un altro momento. Tutti hanno i propri tempi e le proprie necessità. E nessuno verrà criticato per quello che fa o non fa, presente o assente che sia.
  • Contatti all’infuori degli incontri di gruppo: è possibile trovare nuove amicizie in un gruppo di auto-aiuto. Durante una crisi potrebbe essere di grande aiuto sapere che posso telefonare a una persona amica, cioè qualcuno del gruppo. A volte è più facile confidarsi con una persona singola. Ma se questo diventa un’abitudine potrebbe andare a scapito del gruppo. Il vantaggio del gruppo è che posso ricevere l’opinione e il sostegno da parte di più persone. Così non si dipende dall’opinione di una sola persona, inoltre si resta meno fissati sui propri problemi, perché durante gli incontri si ha anche modo di sentire le esperienze degli altri.
  • Come comunicare: frequento il gruppo soprattutto per cercare di stare meglio e sono disposto a parlare delle mie esperienze personali. Parlo nella prima persona singolare (io) e non in modo indiretto (si). Parlare di problemi di terze persone nel gruppo può essere dispersivo e fuorviante. Evito di dare dei consigli (soprattutto se non sono richiesti espressamente). Per il gruppo è più utile se ascolto con attenzione ed empatia. Se racconto cosa ha aiutato me in una situazione simile posso offrire aiuto in modo più efficace.
  • La gestione dei conflitti Come in ogni altro gruppo, anche in quello di auto-aiuto si possono presentare dei problemi (assenze prolungate, racconti senza fine, persone che vogliono imporsi, rimproverare o dare lezioni, ecc.). Prima si riesce ad affrontare questi dissapori apertamente all’interno del gruppo, prima si lasciano chiarire e risolvere. Tacere, fare il muso o parlarne alle spalle, fuori dal gruppo, è negativo e nocivo per il gruppo. Il gruppo funziona anche da campo sperimentale dove si può imparare ad affrontare e gestire malintesi e problemi.
  • Le situazioni di crisi hanno la precedenza In genere ogni membro del gruppo ha il diritto ad essere ascoltato. Se uno di noi si trova in una crisi allora è chiaro che lasciamo lo spazio necessario a questa persona, offrendo tutto il nostro sostegno. In queste occasioni possiamo scoprire di essere veramente utili ad un’altra persona. È importante parlare e trovare delle soluzioni.

 

Auto aiuto come metodologia Il gruppo di auto aiuto è una metodologia di intervento sociale. L’esigenza di gruppi di auto aiuto nasce dalla inadeguatezza o carenza o inesistenza delle risposte dei sistemi sociosanitari e politici, quindi il sostegno reciproco tra membri rompe l’isolamento, mette a confronto le esperienze, il tutto in un clima informale e spontaneo.

Un nodo fondamentale per capire il self help è senza dubbio capire l’importanza che riveste la parità dei membri. Infatti la caratteristica e la novità dei gruppi di auto aiuto è che il soggetto, ogni singolo soggetto, è contemporaneamente fruitore di sostegno. Questo permette lo sblocco della passività e la liberazione dal senso di impotenza e dalla fiducia in se stessi.

Lo strumento fondamentale per lo sviluppo globale della personalità e una corretta immagine di sé è la comunicazione empatica messa in atto nei gruppi di auto aiuto che crea un contesto affettivo, di rassicurazione, che permette all’individuo di far emergere la vita che è dentro di lui. Comunicare, quindi, quale base per una reciproca libertà e chiarezza che, pur tra numerose difficoltà condurrà alla crescita, all’autonomia, alla maturazione.

Caratteristiche dei gruppi di auto aiuto Nei gruppi di auto aiuto bisogna tener presente tre passaggi: l’accoglienza, il racconto, l’ascolto nell’accettazione reciproca; il raccogliere le forze per fare assieme, per testimoniare una condizione, per rivendicare diritti e tutela; poter scegliere di andare oltre, di fare altro; avere la possibilità di non chiudersi in una condizione particolare che diventa totalizzante, assoluta, senza via d’uscita. Quando effettivamente questo terzo passaggio manca, quando le forze si esauriscono nel tempo, quando il poco tempo esaurisce le forze, l’auto aiuto si spezza.

Il gruppo di auto aiuto è un gruppo di piccole dimensioni, in genere proposto spontaneamente da volontari, costituito per offrire aiuto psicologico e percorsi di autonomia alle persone con difficoltà, nel tentativo di favorire cambiamenti personali e/o sociali nei soggetti coinvolti. Spesso questi gruppi nascono all’interno di movimenti di tipo ideologico (religioso o laico), a volte nella convinzione che il servizio pubblico non sia in grado di far fronte alle complesse esigenze che caratterizzano le persone in gravi difficoltà psico-sociali.
La presenza di un operatore professionale nella dimensione dell’auto aiuto assume oggi rilievo e significatività, in quanto questi gruppi offrono uno stimolo innovativo agli accessi di burocratizzazione e al rischio della spersonalizzazione spesso presente negli enti pubblici. In origine questi gruppi sono sorti prevalentemente negli ambiti di organizzazioni di solidarietà e, a volte, addirittura in contrapposizione al sistema dei servizi. Ma in questa fase storica si sta cercando di affrontare e superare le eventuali conflittualità, al fine di fornire un servizio completo e professionalizzato anche a chi desidera auto- organizzarsi.
Nell’ambito della progettazione dei gruppi di auto aiuto, l’assistente sociale può avere l’importante compito di attivare le reti di supporto al disagio (familiari, amici, vicini), mentre nella gestione dei gruppi l’assistente sociale può svolgere la funzione di animatore e di coordinatore. Tale funzione deriva dalla competenza specifica che è presente nel suo ruolo, e, più precisamente nella capacità di strutturare relazioni che rispettino gli obiettivi prefissati e nel porre particolare attenzione alla dinamica che si sviluppa all’interno dei gruppi. I gruppi di auto-aiuto si distinguono dalle altre tipologie di gruppi perché condividono in tutto o in parte determinate caratteristiche:

  • L’impostazione di un rapporto paritario tra tutti i partecipanti; cioè la condivisione di determinati disagi e difficoltà che definiscono lo status di appartenenza al gruppo, nonostante la diversità di sesso, età, estrazione sociale. La mutualità tra i membri è determinata dalla problematica attorno a cui si aggregano i partecipanti, siano essi direttamente o indirettamente coinvolti nel problema.
    • La libertà di poter dichiarare le proprie difficoltà, generando una comunicazione circolare che favorisce lo scambio di esperienze; la comunicazione si presenta come uno scambio reciproco di informazioni, emozioni, racconti, a cui tutti possono prendere parte, anche se in maniera differenziata a seconda del proprio bagaglio e delle proprie caratteristiche personali. Si esclude quindi la presenza di “utenti” come destinatari passivi di determinate prestazioni, ci si aspetta che ogni membro agisca al meglio delle sue capacità, in accordo con ciò che il gruppo ha stabilito come accettabile o non accettabile.
  • Condivisione di obiettivi comuni; i membri sono orientati verso il raggiungimento di alcune mete, consone rispetto a ciò che è percepito come problema centrale comune. Esse emergono dal gruppo piuttosto che essere determinate dall’esterno, e comunque è la loro condivisione da parte di tutti i membri e l’identificazione del gruppo con esse a rendere il gruppo effettivamente di auto aiuto.
  • Orientamento dell’azione; ciò che anima i gruppi è “imparare facendo” e “cambiare facendo”. Lo scopo dei gruppi di auto aiuto è la sperimentazione di nuove modalità di azione e di comportamento, di nuovi modi di sentire e trasmettere i vissuti.
  • Il ruolo del conduttore, che è complementare al ruolo dei partecipanti, tende prevalentemente con la propria competenza a facilitare lo scambio e a stimolare la partecipazione di tutti, senza modificare il contenuto.

Il gruppo non deve diventare un’appendice dei servizi formali né deve funzionare imitando procedure o tecniche professionali. La sua prerogativa essenziale è che l’attenzione della dimensione umana risulti esclusiva e che ogni istanza di razionalizzazione delle attività interne al gruppo risulti a questo finalizzata.
Il rapporto tra self help ed istituzioni è senza dubbio un problema chiave soprattutto in un contesto come quello italiano, dove l’iniziativa singola è sempre vista come poco seria. Si evidenziano fondamentalmente due tipi di rapporti:
• La sostituzione dell’intervento istituzionale;

  • L’affiancamento alle istituzioni.

Oppure, seguendo Silverman, si può parlare di gruppi autonomi o gestiti da servizi.
L’auto aiuto può nascere su iniziativa di un professionista e patrocinato dai servizi oppure essere autonomo.

Il self help è un’occasione da parte delle istituzioni, per contenere le spese sociali in termini di assistenza. Le persone e i cittadini si auto-organizzano secondo le modalità di empowerment e possono riprendersi o aere del potere.

C’è, negli ultimi anni, un’incentivazione dei gruppi di auto aiuto e di tutela, in quanto essi hanno minori costi finanziari, di risorse e di tempo al punto che risultano vantaggiosi anche sul piano economico complessivo. I gruppi di auto aiuto offrono, alle persone che vi partecipano, la possibilità di esercitare attenzione ai loro corpi, alle loro menti, ai loro comportamenti e possono aiutare gli altri membri a fare la stessa cosa. Il gruppo e i singoli svolgono quindi un ruolo unico e fondamentale nel fare emergere le risorse personali, le diverse esperienze, nel favorire la modificazione costante e progressiva di situazioni, vissuti, relazioni e stili di vita superando la semplice epistemologia di lettura e di soluzione lineare salute/malattia, devianza/normalità. In questo ambito è evidente come assume valore la dimensione del potere e quindi la distribuzione della leadership: nessuno dei singoli membri è da solo in grado di possedere tutte le abilità necessarie per un’efficace gestione della leadership. Essa quindi viene condivisa, sia attraverso una periodica rotazione, come avviene, ad esempio, tra gli alcolisti anonimi, sia attraverso una suddivisione di compiti in base alle competenze e disponibilità dei membri, sia ancora affidando la conduzione del gruppo ad una persona che si ritiene essere in una fase avanzata del proprio problema alla quale viene affidato il gruppo: come avviene, ad esempio, in alcune comunità per tossicodipendenti, dove gli elementi fondanti la legittimazione della leadership sono sia la maggior competenza e sicurezza, sia l’essersi confrontato e confrontarsi sul problema su una base di esperienza personale e diretta.
Da questo schema si evidenziano le principali differenze tra l’approccio tradizionale e l’approccio dell’auto aiuto:

Nella maggior parte degli interventi professionali la lettura del problema e la soluzione avvengono in chiave individuale, tutto al più di contesto familiare, mentre nei gruppi di auto aiuto la lettura del problema e la soluzione avvengono in chiave collettiva e di partecipazione.

La caratteristica principale dell’auto aiuto, come già sottolineato, è l’essere un contesto orizzontale tra pari, permettendo a ciascun membro di non poter delegare all’altro la responsabilità del proprio percorso e, dunque, la responsabilità complessiva del sé.

Avviare e gestire un gruppo di auto aiuto Come si è già cercato di spiegare, l’auto aiuto è tale se la persona bisognosa è in grado di far fronte ai problemi tramite se stessa e il gruppo di supporto, senza ricorrere a professionisti, staff medici, sedute psicoterapeutiche o medicinali.

D’altra parte, però, all’origine il gruppo deve poter avere una base di partenza, un nucleo d’esistenza che permette ad esso di svilupparsi.

Il compito di formare il gruppo è affidato ad un professionista, un medico, uno psicologo oppure ad un ente sociale e agli assistenti sociali, che hanno il compito di avviare il gruppo per poi lasciarlo vivere della sua forza, una volta raggiunta.
Il professionista dopo aver avviato la situazione di gruppo nel senso organizzativo, deve avere le capacità di incanalare le discussioni e le comunicazioni durante gli incontri mantenendo un clima di gruppo ristretto e primario. In tal senso la figura del facilitatore dovrebbe diventare sempre meno influente, proporzionalmente alla crescita del gruppo come unità, fino ad essere relegato a mero moderatore nei casi di contrasti o appoggio in quelli di crisi, fino a scomparire del tutto lasciando il gruppo autonomo e capace di autogestirsi. Il passaggio però è solo teorico dal momento che difficilmente il professionista riesce a lasciare il gruppo, perché figura troppo importante e anche imparziale e collante di tutta l’esperienza.
Kurtz riferisce che il ruolo del professionista nel vero self help è quello di linker in modo da creare un bilanciamento tra indipendenza e dipendenza, ossia tra il gruppo e l’organizzazione che gli ha dato la vita.
La funzione di catalizzazione porta ad una sorta di autoterapia per condurre l’individuo ad una propria specificità e autonomia biopsichica nel senso di vita/non vita.

Il professionista deve lavorare affinché i membri del gruppo smettano di dipendere dall’esterno, dal sociale e quindi dalla generalizzazione e comincino, invece a dipendere solo da se stessi e dalla loro condizione di vita.
Quando si ha l’intenzione di creare un gruppo di auto-aiuto, il professionista deve poter decidere la grandezza, i criteri di accettazione delle adesioni e di ammissioni; deve cercare un posto per gli incontri, formulare un piano di reclutamento, ecc.Ovvio che il professionista deve avere una certa preparazione sui gruppi di supporto per poter prendere decisioni e per potere essere pronto a trasmettere le sue conoscenze ai membri del gruppo. Il professionista all’inizio, quindi, funge da catalizzatore, assumendo anche funzioni organizzative.

Il ruolo del professionista in un gruppo di self help è quello di facilitare la comunicazione. Per attuare questo scopo primario si deve tenere presente che i membri preferiscono incontrarsi in un clima che percepiscono positivo, che fa del supporto la base e in cui la negatività, i commenti critici e le domande intrusive sono assenti. Il facilitatore può intensificare il sentimento di supporto non criticando i membri e non chiedendo di questioni personali, rispettando, così, la confidenzialità perché il gruppo non è un trattamento psicoterapeutico in cui tutto deve essere portato a livello coscienziale. Il facilitatore per questo motivo, per rendere il gruppo maggiormente coeso, deve cercare di incrementare le opportunità di incontro tra i membri e deve far rientrare le conversazioni anche dopo l’incontro stabilito. Ad esempio, la chiusura del meeting può prevedere un rinfresco, un banchetto per incrementare la socializzazione.
Un altro importante contributo del facilitatore è quello di fornire le informazioni. Egli può presentarle in modo didattico oppure chiamando degli esperti a parlare al gruppo oppure fornendo della letteratura sul disagio di cui il gruppo si occupa.
Importantissima anche la sua abilità nel far defluire l’incontro in modo da far partecipare i membri alla discussione portandoli ad esprimere e raccontare le proprie storie e cosa hanno imparato da esse. In pratica il facilitatore deve essere in grado di trasmettere ai membri la capacità di sapersi aiutare mostrando come la responsabilità della guarigione non sia nelle sue mani, ma, in quelle di tutti i partecipanti.
Il modello della comunicazione è solitamente free-floating, vale a dire le discussioni fluttuano da una persona all’altra in modo spontaneo.
Silverman riferisce di diversi modi per condurre la comunicazione, per esempio: lasciare che la persona parli per cinque minuti per poi chiedere le reazioni al gruppo, oppure dividersi a coppie per discutere e tornare nel gruppo per mettere assieme le conclusioni, oppure far parlare gli anziani, ecc.
L’abilità di conduzione dei gruppi è molto importante per il facilitatore. E’ fondamentale che egli sia responsabile che ogni persona che interviene abbia avuto il tempo sufficiente per chiarire il suo problema, che vengano espressi sia pareri positivi sia negativi, che le persone più silenziose siano incoraggiate a dare il loro contributo, che il gruppo noti le invocazioni di aiuto, che la discussione non cambi argomento prima di averlo risolto o comunque discusso; il facilitatore è responsabile, inoltre, della sintesi della discussione e della gestione dei sentimenti negativi da parte delle persone.
Per ciò che riguarda gli stadi di sviluppo del gruppo, si può ipotizzare uno stadio iniziale durante il quale i membri cercano di scoprire le similarità, cercano informazioni e soluzioni alternative al problema. Lo stadio intermedio inizia quando i membri sono aperti all’analisi personale del loro problema e quindi in grado di offrire aiuto agli altri e pronti a cercare dei significati nella loro esperienza. Il facilitatore deve incentivare questo sviluppo e farlo progredire verso lo stadio finale quando dovrà avvenire la transizione verso un’esistenza indipendente. Il ruolo del facilitatore è quello di rendere naturale la separazione dal gruppo verso la vita reale, magari incentivando incontri informali tra i membri, non più come membri di gruppo di auto aiuto ma come amici.

Conclusioni
Il gruppo di auto aiuto è una metodologia di intervento sociale, composto da persone che condividono lo stesso problema e che sono disponibili a percorrere le stesse esplorazioni. Esso è come un microscopio, consente di rivolgere lo sguardo verso la propria interiorità imparando a conoscersi meglio e ad accettare se stessi e gli altri.

Il gruppo diviene così il luogo in cui assumere la responsabilità della propria condizione, qualunque essa sia e in ogni momento.

I gruppi di auto aiuto, oltre che costituire una presenza reale, a volte divengono anche presenza unica e insostituibile in quanto propongono percorsi modificabili e aggiustabili in itinere, creano un ” contenitore” che costituisce un luogo di riflessione sul proprio essere, ma anche luogo di pausa, di riposo, rispetto ad un contesto in cui la performance è l’unico obiettivo ed elemento identificativo dell’individuo moderno.

In questi gruppi si realizza quella che è stata definita la “relazione pura” in cui i membri negoziano continuamente la loro autonomia e la loro dipendenza e contemporaneamente si valorizzano vicendevolmente, grazie anche ad una figura professionale (facilitatore), il cui compito primario è quello di favorire la comunicazione, e di rendere il gruppo autonomo e capace di autogestirsi.
Lo sviluppo e l’incremento del ruolo dei gruppi di auto aiuto nell’ambito delle politiche sociali va a collocarsi, quindi, nella dinamica di mutamento del welfare tradizionale in cui convivono libertà individuali e uguaglianze, responsabilità individuali e responsabilità sociale.

 


 

REGOLAMENTO AUTO-AIUTO

 

  1. Condizioni di massima per gruppi di auto-aiuto

 

E’ importante che i partecipanti si sentano a loro agio così da trarre profitto dal gruppo.  All’inizio  i partecipanti del gruppo si dovrebbero accordare sugli obiettivi comuni e sulle regole da osservare nel gruppo. Eventuali cambiamenti vanno fatti sempre di comune accordo.

 

Le aspettative verso il gruppo di auto-aiuto

Ci sono diverse aspettative che si possono avere verso il gruppo di auto-aiuto:

  • voglio conoscere meglio me stesso,
  • voglio acquisire nuove conoscenze sulla malattia,
  • cerco una rete di supporto per momenti di crisi,
  • ho bisogno di comunicare,
  • vorrei imparare a convivere con la malattia,
  • cerco delle persone amiche da frequentare nel tempo libero,
  • vorrei aiutare me stesso e dare anche una mano agli altri,
  • voglio impegnarmi pubblicamente nella lotta contro la stigmatizzazione, ecc.

Nessun gruppo di auto-aiuto può soddisfare tutte queste aspettative contemporaneamente. Per questo motivo devo chiedere a me stesso e a il mio gruppo di auto-aiuto:

Cosa è importante per me?

Cosa è importante per noi?

 

Regole pratiche:

Disporre le sedie in cerchio, in modo da potersi guardare tutti in viso e cercate di cominciare all’ora fissata, senza ritardi.

Iniziare presentandosi solo col nome di battesimo, usando il “tu” e dare una motivazione alla presenza. Gioverà a ciascuno e aiuterà a creare un legame di appartenenza.

 

  1. Le condizioni esterne per un gruppo di auto-aiuto

 

Luogo e data degli incontri del gruppo

Si consiglia di scegliere un luogo di incontro neutro e si consiglia di riservare qualche minuto alla fine della riunione per discutere dove e quando dovrà riunirsi il gruppo la volta seguente.

 

La frequenza degli incontri

La maggior parte dei gruppi si incontra ogni 2 settimane. Gli incontri settimanali vanno bene solo per brevi periodi. Incontrarsi soltanto una volta al mese invece ha lo svantaggio che ci vuole molto più tempo prima che si crei fiducia tra i partecipanti.

 

La partecipazione

La partecipazione regolare ha un effetto benefico sull’ambiente del gruppo. Se decido di partecipare lo voglio fare regolarmente. In caso di assenza avviso per tempo per evitare che gli altri partecipanti stiano inutilmente in pensiero.

 

La responsabilità del gruppo

Il gruppo concorda lo svolgimento del programma. (invitare uno specialista, organizzare una cena o una festa, un evento pubblico per informare, ecc.). Se un partecipante manca alla riunione del gruppo senza aver avvisato o se si sa che un membro del gruppo sta male, insieme si deciderà chi si informerà.

 

L’organizzazione degli incontri

Non solo ogni persona è unica, anche ogni gruppo lo è. In certi gruppi gli incontri sono strutturati in modo chiaro:

  • intervento iniziale
  • discussione
  • intervento finale.

In altri gruppi lo svolgimento degli incontri è molto libero e spontaneo, ecc. Importante è, come già accennato, che la forma “giusta” dei nostri incontri sia appropriata e gestita in modo consensuale.

 

Come condurre gli incontri

Nel gruppo si deciderà se scegliere un moderatore per gli incontri. Il moderatore gestisce gli interventi e osserva il gruppo affinché si rimanga in tema, monitorando che tutti abbiano l’occasione di esprimersi.

  1. Le regole comportamentali

 

Obbligo di mantenere la riservatezza

Tutto ciò che verrà detto nel gruppo, nel gruppo rimarrà. Tutto quanto viene discusso nel gruppo è strettamente confidenziale. Questo è una prerogativa indispensabile per costruire e mantenere la fiducia tra i partecipanti.

 

Imparare gli uni dagli altri

Quando un membro del gruppo racconta un esperienza vissuta, possiamo chiederci:

Come mi sarei sentito io in una situazione simile,?

Come avrei reagito?

Come sono riuscito a risolvere una situazione analoga?

Facendo così saremo sempre coinvolti e non perderemo la pazienza se la situazione di un singolo partecipante sarà al centro dell’attenzione.

 

Parlare nel gruppo

Chi non se la sente ancora di parlare, non è obbligato a farlo, non subirà alcuna pressione in tal senso, né verrà giudicato negativamente per questo motivo. Semplicemente “regalerà” le sue confidenze in un altro momento. Tutti hanno i propri tempi e le proprie necessità. E nessuno verrà criticato per quello che fa o non fa, presente o assente che sia.

 

Contatti all’infuori degli incontri di gruppo:

E’ possibile trovare nuove amicizie in un gruppo di auto-aiuto.

In un momento di difficoltà potrebbe essere di grande aiuto avere la possibilità di telefonare a una persona amica presente nel gruppo. A volte è più facile confidarsi con una persona singola. Ma se questo diventa un’abitudine potrebbe andare a scapito del gruppo. Il vantaggio del gruppo è che posso ricevere l’opinione e il sostegno da parte di più persone. Inoltre si ha anche modo di sentire le esperienze degli altri.

 

Mangiare e Bere

Durante la riunione evitare di mangiare, bere, soprattutto alcolici, e fumare. Ognuno si può concedere un rinfresco prima o dopo la riunione.

 

Come comunicare all’interno del gruppo:

Le regole da rispettare durante gli incontri con il gruppo sono le seguenti:

  • frequento il gruppo soprattutto per cercare di stare meglio,
  • sono disposto a parlare delle mie esperienze personali,
  • parlo nella prima persona singolare (io) e non in modo indiretto (si).
  • evito di dare dei consigli (soprattutto se non sono richiesti espressamente).
  • ascolto con attenzione ed empatia.

 

La gestione dei conflitti

Come in ogni altro gruppo, anche in quello di auto-aiuto si possono presentare dei problemi (assenze prolungate, racconti senza fine, persone che vogliono imporsi, rimproverare o dare lezioni, ecc.). Prima si riesce ad affrontare questi dissapori apertamente all’interno del gruppo, prima si lasciano chiarire e risolvere. Tacere, fare il muso o parlarne alle spalle, fuori dal gruppo, è negativo e nocivo per il gruppo.  Il gruppo funziona anche da campo sperimentale dove si può imparare ad affrontare e gestire malintesi e problemi.

 

Le situazioni di crisi hanno la precedenza

In genere ogni membro del gruppo ha il diritto ad essere ascoltato. Se uno di noi si trova in una crisi allora è chiaro che lasciamo lo spazio necessario a questa persona, offrendo tutto il nostro sostegno. In queste occasioni possiamo scoprire di essere veramente utili ad un’altra persona. È importante parlare e trovare delle soluzioni.

 

 

Bibliografia:

  1. R. Martini & R. Sequi, Il lavoro di comunità, Nis, Roma, 1988

–   E. Durkheim (1897). Il suicidio, Biblioteca Univ. Rizzoli,Milano

–   I. D. Yalom (1995). The Theory and practice of group psychotherapy (4th ed), New York

–   K. Lewin (1935). A dynamic theory of personality. McGrawHill Custom Publishing, New York

–  M. A. Lieberman (1990). A group therapist perspective on self-helps groups, International Journal of Group Psychoterapy, 40, 251-278

–  G. Marocci (2000). Inventare l’organizzazione. Edizioni Psicologia, Roma